martedì 12 maggio 2015

A pigeon sat on a brunch reflecting on existence (Roy Andersson, 2014)

Una sorpresa fuori tempo massimo.
Sarà per la giornata piuttosto inutile, decido finalmente di vedere la Palma d'oro 2014.
Il titolo irritante alla Wertmuller e alcune critiche piuttosto fredde mi infondono la stessa verve con cui affronterei l'ultimo libro di Roberto Gervaso. Lo sguardo della cassiera mi accoglie tra l'attonito e il compassionevole : la sala è vuota a 5 minuti dall'inizio del film (tale rimarrà fino alla fine), eccezion fatta per il sottoscritto e una vecchia un po' smarrita che credo si aspettasse un altro film.  Andiamo bene, mi dico.
Va detto, Roy Andersson ha un pregio : in 72 anni di vita questo è il suo 5 lungometraggio, il che contravviene egregiamente all'ansia da prestazione imperante nel mondo contemporaneo, oltre a fornire un ottimo alibi a chi, superata da un po' la trentina, nella vita ha combinato poco o nulla.  Il tipo viene abitualmente venduto come "erede di Ingmar Bergman", benchè a mio parere le affinità col maestro siano scarsette, o tutt'al più limitate alle  opere più angosciate, tipo lo strazio chiamato Sussurri e grida.
Il film inizia davvero bene con tre brevissimi, ironici apologhi sulla morte e il suo senso nella società contemporanea. L'introduzione piuttosto insolita ha l'indubbio merito di farci entrare con calma nell'ambiente totalmente straniato del regista svedese. La storia procede per quadri : la camera, rigorosamente fissa, osserva freddamente una sequenza di situazioni apparentemente slegate tra loro ma nelle quali riconosciamo poco a poco la ripresentazione di alcuni personaggi. In particolare, il filo del discorso sembra essere tenuto da una coppia di rappresentanti di denti da vampiro in gomma che di fronte alla ricaduta degli affari attraversano una crisi personale profonda. In questa trama debole si creano enormi spazi per l'inserimento di personaggi e situazione del tutto imprevedibili e quasi sempre iperbolici. Su tutti spiccano il trionfale musical improvvisato nel baraccio di quart'ordine e
l'esaltante visita di un improbabile re a cavallo - con esercito a seguito - nella bettola della zona industriale. Impossibile rendere conto a parole della ricchezza di trovate che il film inanella in maniera costante, in un climax dell'assurdo che a tratti richiede un notevole sforzo di attenzione. Insomma, a tratti forse troppo, ma va detto che per lo meno è un cinema originale, che somiglia poco a qualsiasi cosa in circolazione. Il paragone più pertinente credo sia quello con un altro cineasta scandinavo come Aki Kaurismaki, di cui si ritrovano gli ambienti freddi e i personaggi improbabili.
Per il gusto dell'assurdo spinto e della spettacolarità il pensiero corre ai Monty Python e in particolare a Terry Gilliam, nonchè , mi sembra, a diverse cose di Jean Pierre Jeunet. Ottimo, ricchissimo, il trattamento dell'universo sonoro, votato a un iperrealismo che ben si accompagna alla altisonanza dell'immagine.