venerdì 22 luglio 2016

The Last House on the Left (Wes Craven, 1973)

Retrospettiva integrale per Wes Craven alla Cinémathèque française.
Ideatore e realizzatore di grandi classici dell'horror - in primis le gloriose serie di Nightmare e Scream - il regista americano recentemente trapassato si dimostra perfettamente a suo agio anche in una collocazione più "autoriale". In effetti, la dimensione prettamente di genere dei suoi film si rivela solo raramente fine a se stessa e lascia ampi spazi a un discorso spietato sulla società contemporanea.
A questo proposito The Last House on the Left, primissimo film di Craven, si rivela vera opera seminale, in cui si trovano in nuce le tracce principali del futuro discorso del realizzatore.
La trama è di una semplicità disarmante. Mari Collingwood è l'unica figlia di John e Estelle e insieme formano la tipica famiglia felice WASP. Il giorno del suo diciassettesimo compleanno, recandosi a un concerto con la amica Phyllis, Mari viene rapita da Krug e la sua banda, un quartetto di stupratori sadici che sottoporrà le giovani a supplizi di ogni tipo. Di fronte all'avvenimento, la coppia di sbirri della contea si dimostra totalmente incapace e la giustizia dovrà essere ristabilita con metodi "spicci" dai genitori di Mari.
Niente zombies, niente vampiri, né tanto meno mostri della palude.  Camera a mano e regia nervosa, il film sembra più che altro un documentario su un caso di stupro efferato, dal quale è esclusa dall'inizio qualsiasi ipotesi risolutiva alla "Arrivano i nostri".
La violenza è ovunque, sembra dirci Craven : se essa è estrema e sanguinaria nei personaggi della banda responsabile del massacro, essa non si dimostra meno feroce nei personaggi "buoni" del film, i genitori di Mari, che non esitano a decorare le pareti del salottino con le budella del carnefice della figlia.
A rendere il tutto più straniante ci pensa una colonna sonora dai tratti piuttosto spensierati e fricchettoni, nonché i frequenti siparietti esilaranti che si prendono gustosamente gioco dell'inettitudine delle forze dell'ordine.
Il tema della degenerazione disumana della famiglia tradizionale si riconfermerà al centro del successivo discorso del regista : in Hills have eyes (1977) per esempio, Craven opporrà la classica famiglia-bene americana alla sua versione degradata e ferina, e in Nightmare on Elm Street (1984) Freddy Krueger - si noti l'assonanza con Krug - sarà una vittima di un episodio di giustizia sommaria messo in pratica dai genitori delle proprie piccole vittime.
Gran successo di pubblico, The Last House on the Left farà presto scuola e aprirà la strada per un nuovo horror realista e claustrofobico. Per restare su esempi nostrani, non pochi saranno i debiti contratti con il film da Mario Bava nel ragguardevole Cani arrabbiati (1974).

mercoledì 13 luglio 2016

Terrore nello spazio (Mario Bava, 1965)

Quel fighetto di Nicholas Winding Refn sale in soffitta e riapre il baule dell'immaginario pop anni '60. Lo fa promuovendo il restauro in 4k di Terrore nello spazio, autentica perla della storia del cinema italiano e vero unicum nella vasta opera del Maestro Bava. Presentato a Cannes 2016, il film è ora distribuito nelle sale di Francia, terra di cinefili devoti al cinema più "artigianale".
La fantascienza nel cinema italiano è sempre stata un genere marginale. Eccezion fatta per opere di culto di Antonio Margheriti, come Space men (1960) e I diafanoidi vengono da Marte (1966), il genere non ha quasi mai riscosso la fiducia dei produttori, soprattutto per la mancanza di strutture produttive economicamente adeguate. Ma Bava - che giustamente se ne impipa dell'economia e sa che il cinema è fatto di quel che NON si vede - si fa dare quattro macchine del fumo, due rocce finte e ti mette su un pianeta degno del miglior prodotto Universal.
Le astronavi gemelle Galliot e Argos sono attirate su un pianeta sconosciuto da un segnale misterioso. All'arrivo, gli equipaggi sono posseduti da una forza misteriosa che spinge alcuni ad uccidersi a vicenda. Il comandante Mark però tiene in pugno la situazione, e con un manipolo di sopravvissuti si avventura alla scoperta del luogo, che presto si rivela abitato da forze sovrannatuturali...
Come indicato efficacemente dal titolo, Terrore nello spazio imbastardisce l'ambientazione tipicamente fantascientifica con le situazioni tipiche del cinema horror. Ecco quindi che sul pianeta misterioso compaiono zombies che escono dalle tombe, passaggi segreti e creature mostruose. Il tutto è reso infinitamente più fico da riferimenti alla cultura pop del momento che riestituiscono l'iconografia di quegli anni, come le tutine in cuoio aderente dei protagonisti, che sembrano prelevate di peso dall'immaginario sado-maso.
Notevole, a livello scenografico, quello che Bava riesce a fare con le proverbiali quattro lire : leggenda vuole che il Maestro disponesse soltanto dei resti delle scene di un western e che la lava ribollente del pianeta fosse in realtà un enorme calderone di polenta. Su tutto il regista fa stendere spessi strati di fumo/nebbia, illuminando il tutto con dei forti controluce rossi e blu.
Il genio di Bava sta proprio qui : a partire da una scarsità di mezzi congenita, con pochi tratti, il regista costruisce un mondo. Lo spazio sperduto di Bava è fatto di spazi angusti, soprattutto interni come grotte e astronavi abbandonate, e l'uso di modellini e trasparenti per i rari en plein air è limitato allo stretto necessario.
Per comprendere il valore del film a livello planetario, basti pensare che proprio a Terrore nello spazio farà riferimento Ridley Scott nel 1978 per la sceneggiatura di Alien.

mercoledì 29 giugno 2016

Con Air (Simon West, 1997)

Avete presente le pigre sere d'estate in cui il caldo soffocante vi toglie la voglia di qualsiasi film non abbia al suo interno delle esplosioni e un Nicholas Cage con espressione inebetita? Ebbene, a me capitano spesso e Con Air è un capolavoro anni Novanta che da troppo tempo ho perso di vista.
Rapido giro di messaggi e alle 21 spaccate sono sul divano di Luca per scroccare proiettore e acqua-e-menta.
Nick Cage si gode un bellissimo disco dei Nickelback
Nicholas Cage veste la canotta e i capelli del cantante dei Nickelback (gruppo il cui ricordo vorrei espiantare dalle mie sinapsi) e intepreta Cameron Poe, valoroso ranger dell'esercito americano finito in gattabuia per una rissa finita male. Scontata la pena - ingiusta ma sopportata con dignità e parecchia palestra - il nostro imperturbabile protagonista viene imbarcato sull'aereo che lo riporterà dalla moglie e dalla compianta figliola. A perturbare il clima da gita di classe si mette Cyrus the Virus, interessante vilain senza scrupoli, freddo e calcolatore, interpretato da un ottimo John Malcovich. Il cattivone di turno è affiancato da una ridda di boy scout in libera uscita, tra cui spicca il tenerone pluri-stupratore incarnato dal leggendario Danny Trejo. Manco il tempo di decollare, i bontemponi prendono il possesso del velivolo, suscitando l'ovvia perplessità di Cameron Poe. Di fronte al rischio di essersi sorbito 8 anni di sole a strisce per l'anima del cazzo, il soldato in incognito farà di tutto per tarpare le ali della libertà al gruppo di ammutinati.
L'espressività di Nick Cage
A terra, John Cusack è Vince Larkin, sbirro timido e democratico che deve opporsi all'impulsività da cow-boy di un collega desideroso di abbattere l'aereo senza tante menate.
Tutti gli elementi che fanno il successo di un action movie sono mescolati in maniera esagerata ironica : i tempi d'oro del genere sono ormai finiti e il genere si ritrova a prendere in giro se stesso.
A livello di spazi, l'idea dell'ambiente carcerale combinata a quella dell'aeroplano conferisce al film la giusta patina claustrofobica. I personaggi disegnati dagli sceneggiatori incarnano ideali contrapposti e estremizzati, ma senza mai giungere all'assoluto, come dimostrato dal personaggio di Steve Buscemi, pluri-assassino alla Hannibal Lecter che finisce a giocare con le bambole come un innocuo bambino troppo cresciuto.
Ai tempi della fine del film d'azione classico (Bruce Willis in Die Hard, per intenderci), verso la nuove frontiere della fantascienza e della paura post 11 settembre, Con Air gioca al rialzo anche con gli aspetti catastrofico-spettacolari, giungendo alla folle, tamarrissima, geniale idea di far atterrare l'aereo in una strada del centro di Las Vegas.
Jackpot.

venerdì 24 giugno 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2015)

Approfitto di una pausa estiva a Vicenza per vedere (fuori tempo massimo) il Jeeg robot di Mainetti.
Va detto, mi avvicino alla materia da profano: la mia conoscenza del mondo supereroico si limita ai Superman con Christopher Reeve e qualche Batman, quelli di Burton e quelli più recenti di Nolan.
Tra i mille interrogativi ne spicca uno: come avrà fatto Mainetti ad adattare al mercato italiano uno schema geneticamente hollywoodiano? e, soprattutto, senza risultati patetici tipo Rambo Turco?
Un Claudio Santamaria nel corpo di Gérard Depardieu interpreta Enzo Ceccotti, disperato della periferia romana che vive di espedienti e si nutre di soli budini. Il malcapitato, in fuga dalle guardie, cade nel Tevere impiastricciandosi di una sostanza tossica che gli dona forze sovrumane. Al che, il nostro fa quel che farebbe qualsiasi persona sana di mente: arricchirsi oltremodo illecitamente.
I budini aumentano vertiginosamente nel frigo di Ceccotti, ma il nostro eroe dovrà fare i conti con il criminale coatto androgino detto Lo Zingaro (un Luca Marinelli allucinato, violentissimo e sopra le righe). A completare lo schema la timida storia d'amore con Alessia, vicina di casa "matta scocciata" e invasata di anime, che vede in Ceccotti il super eroe della sua saga preferita.
Le menate sui grandi poteri e le grandi responsabilità vanno a farsi fottere nel personaggio crudo e brutalmente realista di Santamaria, il cui unico scopo sembra essere quello di aprire i bancomat come scatolette di tonno per incrementare le sue scorte di latticini e DVD porno. Un eroe che non può non ricordare i personaggi di Eastwood per Leone, che proprio (guarda caso!) sulla scia dei film di samurai giapponesi sostituì all'idea di cowboy "eroe senza macchia" quella del pistolero individualista e venale. Un supereroe post-moderno quello di Mainetti, che nonostante la sua notevole forza non vola, non spara fiamme o raggi laser. Al contrario, accanto alla imperfezione morale, è proprio sull'elemento corporale e sulla sua vulnerabilità che regista e sceneggiattori han voluto insistere. L'eroe di Mainetti è tra i meno super che si siano mai visti; egli suda, sanguina, si ferisce, dissemina pezzi di corpo, e per certi versi pià che quel fighetto dell'Uomo Ragno ricorda l'Arnold Schwarznegger di Predator, che prende una fracca di botte ma gira e rigira vince lui.
Numerosi i riferimenti, che spesso sfiorano la citazione al cinema americano di genere, dagli esempi più alti, come il Joker di Jack Nicholson, ad altri buoni per masturbare i cinefili, come quello esplicito a The Toxic Avenger e in generale a tutto l'immaginario della Troma Film. E poi l'ammiccamento a Pasolini (che pare che se giri un film a Tor Bella Monaca devi metterlo per contratto) in una delle battute finali del film : "I supereroi son come i poeti, ne nasce uno ogni cent'anni". Ok, bello, però basta.
Insomma, diciamolo, passo decisivo nel cinema di menare.

martedì 30 giugno 2015

Cani arrabbiati (Mario Bava, 1974)

Da tempo mi promettevo di rigustarmi Cani arrabbiati, già visto alcuni anni fa alla prima infatuazione per poliziotteschi vari. Diciamolo da subito, siamo di fronte al mito, a un'opera leggendaria, che deve la sua mitizzazione sia alla eccentricità nella filmografia del maestro (più aduso al paranormale) che alle vicissitudini di produzione.
Girato nel 1973, a causa dei problemi finanziari di Roberto Loyola (un pittore-produttore piuttosto sopra le righe), il film non vedrà la luce che alla metà degli anni '90, rimontato dal figlio Lamberto anche con materiali girati di propria mano.
Il risultato è senza dubbio una delle punte assolute del cinema italiano di quegli anni, un'opera che fa saltare le barriere di genere, un vortice claustrofobico che attanaglia lo spettatore rinchiudendolo per quasi due ore nell'abitacolo di un'auto in compagnia della peggio umanità. Non era scommessa da poco, visto che spesso al cinema l'unità di spazio può generare noia nello spettatore, ponendo soprattutto il problema del ritmo di comunicazione tra i personaggi, che va accuratamente tenuto alto e teso.
Il plot, che Bava ha tratto da un breve giallo Mondadori,  è piuttosto semplice: tre rapinatori prendono in ostaggio una donna, un bambino malato e suo padre e partono per una lunga fuga sulle autostrade infuocate dalla canicola estiva.
Questa situazione piuttosto banale è resa un vero e proprio inferno da alcune intelligenti estremizzazioni. I cattivi incarnano le peggiori degradazioni umane, tanto che Freud potrebbe vedere tale triade come scomposizione psicanalitica dell'uomo. Davanti, al posto del passeggero, c'è il "dottore", cervello della banda, freddo, razionale e cinico; dietro invece abbiamo un Don Backy irriconoscibile che qui interpreta Bisturi, esperto col coltello ma dal carattere bipolare, e infine c'è Trentadue, chiamato così per la sua sessualità pronunciata, l'elemento inconscio, folle, esaltato e fuori controllo. Gli ostaggi sono Maria (Lea Kruger), la classica impiegata-segretaria media, e soprattutto Riccardo Cucciolla, per antonomasia la faccia da pezzo di pane del cinema (e del teatro) italiano.
L'efficacia di base della costruzione dei personaggi è potenziata dal contesto : il sole estivo a picco sull'autostrada deserta rende l'abitacolo dell'auto un girone dantesco, dove Bava si diverte a far scorrere sudore in quantità. Sta proprio qui un'altra delle trovate del maestro: lui che da sempre ha fatto del sangue l'elemento base del suo cinema, nel momento in cui si distacca dal genere prediletto sente la necessità di accentuare l'elemento corporeo e biologico dell'immagine. Così, i corpi fradici dei personaggi, ripresi con asfissiante intimità da una macchina da presa nervosa, conferiscono alle immagini una materialità morbosa. In altri termini, te la senti addosso, la vomitevole canotta sudata di Trentadue che si rimpinza di J&B e spalma della maionese sul décolleté della malcapitata Maria, mentre sghignazza sadico in primissimo piano.
Genio del cinema di genere, Bava si dimostra perfettamente conscio degli elementi necessari alla trama. Non c'è alcun bisogno di mettere in scena mostri o sventramenti : il disagio, l'angoscia, il terrore, sono qui raggiunti con effetti speciali molto semplici, poiché il più delle volte l'essere umano sa essere più mostruoso di qualsiasi entità sovrannaturale.
Pepita assoluta.
Sul tubo si trova una pessima copia, ma anche degli interessanti extra (con spoiler, occhio) girati in occasione di uscita del DVD per Rarovideo.






domenica 28 giugno 2015

The amazing Mr. No legs (Joe Sarno, 1979)

Autentica chicca del cinema di serie B (fate anche C), The amazing Mr. No legs , conosciuto anche semplicemente come Mr. No legs,  ha i requisiti fondamentali per mettere insieme un ottimo noir anni '70 : arti marziali, inseguimenti, crimine, donne discinte... Unico particolare : l'ultra-cattivo di turno, in mancanza di gambe, è costretto su una sedia a rotelle. L'attore che lo interpreta è un ex marine che ha dimenticato gli arti inferiori nella ridente cornice del sud-est asiatico, il quale rientrato in patria ha pensato bene di diventare cintura nera di karate. Al che il tizio ha avuto il famoso quarto d'ora di celebrità che il cinema di genere, col suo implacabile gusto per i fenomeni da baraccone, ha pensato di sfruttare al meglio.
Mr. No legs è lo scagnozzo numero uno di un boss della droga incravattato e, nonostante l'evidente handicap, dimostra da subito una perfidia senza pari. Al suo primo intervento, il nostro sistema un paio di traditori con due fucili a canne mozze installati sui braccioli della fedele carrozzina. Inseguito, un affiliato alla stessa banda uccide la sua ragazza scaraventandola contro un televisore e il fratello sbirro della malcapitata (clamorosamente somigliante a Italian Spiderman) si mette sulle tracce dei responsabili. Nel frattempo Mr. No legs, memore del classico del genere Scarface, decide di scalare la gerarchia dell'organizzazione e inizia a far fuori un po' di colleghi. Insomma, gira e rigira il mostro finale è ovviamente lui, ma attenzione ai (prevedibilissimi) colpi di scena.
Dialoghi imbarazza(n)ti, slow motions tristissimi, scenografie di un pacchiano memorabile, personaggi stereotipati, inseguimenti interminabili,  il film ha tutti gli elementi per rivendicare la sua patente di cult del genere. Addirittura, a volte l'impressione è che esso rasenti la parodia esplicita, come per esempio nella scena dell'inseguimento finale, in cui l'auto dell'inseguito passa attraverso, nell'ordine, a una roulotte enorme, a le classiche cassette della frutta e (ovazione in sala) a dei lastroni di ghiaccio casualmente posti al centro di un parcheggio (ma perché?). 
Per i più curiosi, sul tubo si trova una (pessima) copia tirata da homevideo.
Se invece non vi volete sucare tutto il film, a questo link la scena madre. Imperdibile.

https://www.youtube.com/watch?t=11&v=eJyHfKNNaes





martedì 12 maggio 2015

A pigeon sat on a brunch reflecting on existence (Roy Andersson, 2014)

Una sorpresa fuori tempo massimo.
Sarà per la giornata piuttosto inutile, decido finalmente di vedere la Palma d'oro 2014.
Il titolo irritante alla Wertmuller e alcune critiche piuttosto fredde mi infondono la stessa verve con cui affronterei l'ultimo libro di Roberto Gervaso. Lo sguardo della cassiera mi accoglie tra l'attonito e il compassionevole : la sala è vuota a 5 minuti dall'inizio del film (tale rimarrà fino alla fine), eccezion fatta per il sottoscritto e una vecchia un po' smarrita che credo si aspettasse un altro film.  Andiamo bene, mi dico.
Va detto, Roy Andersson ha un pregio : in 72 anni di vita questo è il suo 5 lungometraggio, il che contravviene egregiamente all'ansia da prestazione imperante nel mondo contemporaneo, oltre a fornire un ottimo alibi a chi, superata da un po' la trentina, nella vita ha combinato poco o nulla.  Il tipo viene abitualmente venduto come "erede di Ingmar Bergman", benchè a mio parere le affinità col maestro siano scarsette, o tutt'al più limitate alle  opere più angosciate, tipo lo strazio chiamato Sussurri e grida.
Il film inizia davvero bene con tre brevissimi, ironici apologhi sulla morte e il suo senso nella società contemporanea. L'introduzione piuttosto insolita ha l'indubbio merito di farci entrare con calma nell'ambiente totalmente straniato del regista svedese. La storia procede per quadri : la camera, rigorosamente fissa, osserva freddamente una sequenza di situazioni apparentemente slegate tra loro ma nelle quali riconosciamo poco a poco la ripresentazione di alcuni personaggi. In particolare, il filo del discorso sembra essere tenuto da una coppia di rappresentanti di denti da vampiro in gomma che di fronte alla ricaduta degli affari attraversano una crisi personale profonda. In questa trama debole si creano enormi spazi per l'inserimento di personaggi e situazione del tutto imprevedibili e quasi sempre iperbolici. Su tutti spiccano il trionfale musical improvvisato nel baraccio di quart'ordine e
l'esaltante visita di un improbabile re a cavallo - con esercito a seguito - nella bettola della zona industriale. Impossibile rendere conto a parole della ricchezza di trovate che il film inanella in maniera costante, in un climax dell'assurdo che a tratti richiede un notevole sforzo di attenzione. Insomma, a tratti forse troppo, ma va detto che per lo meno è un cinema originale, che somiglia poco a qualsiasi cosa in circolazione. Il paragone più pertinente credo sia quello con un altro cineasta scandinavo come Aki Kaurismaki, di cui si ritrovano gli ambienti freddi e i personaggi improbabili.
Per il gusto dell'assurdo spinto e della spettacolarità il pensiero corre ai Monty Python e in particolare a Terry Gilliam, nonchè , mi sembra, a diverse cose di Jean Pierre Jeunet. Ottimo, ricchissimo, il trattamento dell'universo sonoro, votato a un iperrealismo che ben si accompagna alla altisonanza dell'immagine.