martedì 10 dicembre 2013

The Parallax view (Alan J. Pakula, 1974)

Riprendo in mano il blog dopo tre settimane di esperienze kafkiane attraverso la burocrazia francese.
Gli sbattimenti a uffici non mi hanno impedito di frequentare ossessivamente la Cinématheque di Bercy, che nel corso di una settimana ha proposto il festival "Toute la memoire du monde", titolo splendido per una rassegna del cinema restaurato.
Ospite d'onore di quest'anno William Friedkin (quello dell'Esorcista, per intenderci). Il tizio ha avuto "carta bianca" e ha potuto proporre 5 dei suoi titoli preferiti. Tra questi Il tesoro della Sierra Madre di Huston e l'hitchcockiano "Vertigo". Bella scoperta per me è stato invece The parallax view di Alan J. Pakula.
Friedkin si presenta in sala saltellante in tenuta da tipico W.A.S.P. e presenta il film con passione da cinefilo, tanto che il film inizia con un ritardo di mezz'ora.
La storia inizia con un assassino: un senatore progressista è fatto fuori da un cameriere armato nel ristorante dello Space Needle di Seattle. Da quel giorno, uno dopo l'altro, i testimoni del delitto vengono ritrovati morti per cause apparentemente naturali. Un giornalista, interpretato da Warren Beatty, si lancia alla ricerca della verità per vendicare la morte di una collega. In questo modo scopre l'esistenza di una fantomatica società chiamata "Parallax View" che recluta uomini senza scrupoli per compiere attività di stampo sovversivo.

Il film si inserisce a pieno titolo in quella schiera di film successivi al 1963, che si propongono di rappresentare il lato oscuro del sogno americano. L'assassinio di Kennedy e le indagini seguenti svelano all'America e al suo immaginario la presenza di larghe sacche di insondabilità all'interno della realtà politico-sociale. Il cinema è in prima linea per rapppresentare l'insondabile, e lo fa mettendo in scena delle ipotesi.
D'altronde il titolo stesso del film allude alla visione, all'atto dello scrutare: il Parallax View è la visione che le vecchie macchine da presa fornivano attraverso il mirino posto a lato del dispostivo. La Parallax View non è mai ciò che la camera riprende effettivamente, ma una sua copia similare, mai autentica.
Il tema è uno dei più percorsi e ripetuti all'interno del cinema degli anni '60-'70 e finisce per riverberarsi anche al cinema europeo: penso a Blow Up di Antonioni, oppure a Indagine di Petri, che del motivo della imperscrutabilità del potere fa un suo pilastro centrale.
"Americano come la torta di mele", recita la locandina del film, riferendosi alle trame oscure che percorrono l'indagine del giornalista-Beatty.
Pakula , come in Tutti gli Uomini del Presidente, mette su un ritratto critico e efficace della relatà politica americana, che non smette di parlare anche ai nostri giorni.

giovedì 21 novembre 2013

Two Mothers (Anne Fontaine, 2013)

Mi capita, a scadenze regolari, di rimproverarmi quello che potre definire "passatismo cinematografico".
Insomma, di dedicarmi esclusivamente alla visione di pellicole del passato, a volte anche molto remoto, nell'illusione che siano le sole degne di attenzione.Allora mi sforzo di frequentare con maggior frequenza le sale, perchè "è importante tenersi aggiornati, capire a che punto siamo".
Poi capita che vada a vedere Two Mothers. Mi dico che c'è Naomi Watts, che non può essere una vaccata, "è la tipa di Mulholland Drive!", operando nessi consequenziali privi di senso.
Per farla breve (non dovrei dirlo, ma lo dico) Two Mothers è una vaccata, o come ha detto il diplomatico sconosciuto seduto al mio fianco "è una fregatura". Anche i 3 euro che la regione Veneto ci elargisce per la proiezione del martedì non equivalgono il valore effettivo dell'opera.
La PSICHE femminile?!?!
Detto questo...La vicenda narra di due madri ormai alla soglia dei 50 che vivono in un paesino da sogno su una scogliera australiana. I due figli hanno 20 anni e passano la vita a surfare e a bere birrette con le madri. Loro, le madri, lavorano in uno di quegli uffici pieni di Mac enormi, ma che non si capisce che combinino.Una è vedova, l'altra è sposata con un professore universitario di teatro che più che altro ha l'aria di Nico di MaiDireGol. Insomma, per farla breve, a una certa i figli circuiscono le rispettive madri, e inizia un rapporto chiastico tutto molto libero e limpido, della serie diciamoci tutto. Poi buco nero di cui non ricordo nulla (sarà che per mez'ora non succede nulla). Poi improvvisamente i due ragazzi, 22enni, sono affermati nella vita che neanche Briatore (per dire...): uno contratta per delocalizzare una fabbrica di non si capisce cosa (paccottiglia da hipster senza dubbio) in Cina (quanto sei stronzo), l'altro minus habens mette in scena trionfantemente operette di Gershwin di cui si vede solo una specia di triglia mora che canta canzoni melense. Mi fermo qui.
Ammetto che può essere interessante l'idea di sceneggiatura di mettere in scena una vicenda complessa di sesso al limite dell'incestuoso, qualcosa che potrebbe ricordare un certo cinema nordeuropeo. E va bene.
Ma il primo dei problemi di questo film è la "confezione": l'impressione che rimane durante tutta la visione è quella di assistere ad un lunghissimo miscuglio tra una pubblicità di Hugo Boss, di cui i due ritardati figli sarebbero gli attori, e una di una crema antirughe, di cui le due tardone piallate sarebbero le protagoniste.
Le spiagge da sogno e le case di design sono la cornice perfetta per la rappresentazione di queste vite impeccabili e di sicuro successo, in cui le frammistioni sessuali sono solo un hobby come un altro, immune dai dubbi e dai disagi della vita dei comuni mortali. Quello che manca è proprio la problematizzazione della vicenda, l'approfondimento delle dinamiche psicologiche dei personaggi, che in una vicenda come questa avrebbe trovato terreno prolifico. Il tutto si risolve in una accozzaglia di cartoline di saluti dalle scogliere australiane popolate di aitanti surfisti e arrembanti donne in carriera.
Quello che manca è la vita, quella vera. Non che questo debba essere per forza un problema, ma allora perchè si va al cinema?



lunedì 18 novembre 2013

Giovane e bella (François Ozon, 2013)

Il cinema vicentino Araceli, da un paio d'anno si riscopre sala d'essai (per gli standard berici, s'intende), arrivando a proporre opere al limite del pruriginoso come questo Jolie et jeune di Fraçois Ozon.
Entro al cinema senza particolari aspettative. Tutte le informazioni che ho sul film si limitano ad alcuni commenti raccolti a Parigi qualche mese fa. Ne esco abbastanza soddisfatto ma non del tutto convinto.
Il cinema francese ci ha ormai abituato a una serie di messe in scena del (non più) proibito, il cui apice si è raggiunto col magnifico (visivamente esplicito) Inconnu du lac.
Anche qui si percorre la strada del (ex)rimosso della nostra società perbene, che ignora quanto e a che livelli il fenomeno della prostituzione sia diffuso e radicato al suo interno. Gran presa di coscienza in Italia si è avuta ultimamente col caso dei Parioli a Roma.
La diciassettenne Isabelle vive con la madre, il fratellino e il patrigno in un bell'appartamento del centro parigimo. L'ambiente è tipicamente bobo, tra il borghese e il fricchettone, della serie: libertà ai figli, ma fino a che non ne approfittano per davvero. Isabelle della propria libertà (e della propria avvenenza) ne approfitta eccome, e inizia la sua fortunata attività di prostituta ad alti livelli economici e sociali. Si troverà in una situazione drammatica che le procurerà ripercussioni nella vita familiari ma alcun vero ripensamento.
Il pregio principale del film di Ozon è quello di rifiutare qualsiasi pretesa di indagine sociologica, ma anche qualsiasi punto di vista moraleggiante: Isabelle non prova alcun disagio nella sua vita, no ha bisogno di soldi, non desidera gloria o piacere fisico. Come direbbe De André, "lei lo faceva per passione".
Questo ne fa un personaggio autenticamente ribelle che non si trova a voler essere giudicato, ma rivendica la propria autonomia estrema. Per certi versi credo si possa parlare di un riferimento a Monica e il desiderio di Bergman, cui non a casa Truffaut aveva reso esplicito omaggio in un'opera madre del cinema francese come Les 400 coups.
Costruito su meccanismi narrativi piuttosto classici, il film scorre velocemente e giunge al suo termine senza una chiusa degna di questo nome e senza alcun insegnamento vero e proprio, ma si rivela tutto sommato privo di una reale originalità soprattutto a livello visivo. Anche a livello contenutistico, il dubbio,a tratti, è che l'opera punti più sulla rappresentazione del corpo senza veli della protagonista piuttosto che su una reale disamina della vicenda e de suoi meccanismi.

giovedì 14 novembre 2013

Il processo di Verona (Carlo Lizzani, 1963)

Ho sempre stimato Carlo Lizzani. E' stato un regista onesto e sempre coerente con le proprie idee. Per lui il cinema è sempre stato un medium finalizzato a narrare la Storia con mezzi spettacolari senza tante elucubrazioni. Egli se ne è servito sempre con rigore ed eleganza, senza per questo piegare il suo linguaggio ad scopi apertamente faziosi, anzi cercando sempre di coltivare il dubbio. Piuttosto di narrare le gesta di personaggi dalle sue stesse idee politiche, egli ha sempre tentato di ritrarre il lato "rimosso" della storia d'Italia, la zona grigia della società.  Così è stato per l'eccezionale Banditi a Milano, con un indimenticabile Volonté nei panni (e nel corpo) del bandito Cavallero, e così è per Il processo di Verona, opera pressoché dimenticata come molte altre del cineasta recentemente scomparso.
Ho recuperato in questi giorni una copia del film e ieri pomeriggio ho avuto modo di vederlo.
La storia è piuttosto conosciuta: Galeazzo Ciano, ex-rampollo del Duce, il 25 luglio '43 vota per la decadenza di Mussolini dalla carica  di primo ministro, e assieme agli altri gerarchi accusati di tradimento, si farà processare e fucilare dai repubblichini al soldo dei nazisti.
La macchina da presa di Lizzani si stacca solo raramente dalle figure protagoniste di Ciano e della moglie Edda Mussolini; ne esce un dramma borghese dal sapore quasi ibseniano, inserito però in quello che Lizzani sa fare meglio: un ritratto para-documentario delle realtà storica.
In un procedimento simile a quello che negli stessi anni Pontecorvo mette in atto nella Battaglia di Algeri, Lizzani fonde le immagini di fiction (girate appositamente a "grana grossa") con i filmati dell'epoca: ne risulta un affresco duramente suggestivo, in cui il marcescente clima repubblichino si respira a pieni polmoni. E' dunque senza dubbio a scopo purificatorio che Lizzani sceglie di inserire alla fine del film, a sfondo della parola FINE, le immagini più gloriose della lotta partigiana, tra cui il cadavere di Mussolini a Piazzale Loreto.
Interessante, ma soprattutto coraggioso dunque, questo lavoro di Lizzani, che mette sotto i riflettori il personaggio di Ciano in tutta la sua drammatica vicenda umana ben fondendola alla narrazione storica.
Molto brava la Mangano nel ruolo di Edda, altro personaggio molto complesso.
Leggi i giornali? Prova a guardare Ciano e non pensare Alfano.



martedì 12 novembre 2013

La rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985)

Stamane levataccia antelucana per oneri di lavoro, quindi ieri sera permanenza in casa. Decido quindi di rivedere dopo tempo il film alleniano. Uno degli studi più interessanti e profondi sulla cinefilia e l'attività dello spettatore. D'altronde, chi meglio del cinema stesso può parlare del cinema. Come nell'arte, al cinema la teoria si fa vedere, più che lasciarsi formulare.
Cecilia (Mia Farrow) è una sventurata cameriera in un caffé, con a casa un marito beone e violento, che per evadere dalla sua realtà da incubo trova rifugio tra i sogni del cinematografo.
Un brutto giorno Cecilia perde il lavoro e trova il marito a letto con un'altra, quindi non le resta altro da fare che chiudersi nel suo cinema di fiducia a sciropparsi cinque visioni de "La rosa purpurea del Cairo".
All'ultima proiezione della giornata, Tom Baxter l'archeologo rimane sconvolto dalla bellezza di Cecilia e zompa fuori dallo schermo coinvolgendola nella sua fuga nel mondo reale. Sarà l'attore Gill Shepherd, che interpreta Tom sullo schermo, è quindi incaricato di rintracciare il fuggitivo e convivincerlo a ritornare nel film...
Woody Allen, con una storia del tutto semplice, illustra il motivo del cinema come cornice: lo schermo è un limes, una frontiera che è pericoloso superare. Chi si azzarda a farlo compie un sovvertimento dell'ordine ontologico: nel film di Baxter, la sua fuga scatena il panico. Ma altrettanto pericoloso, anche se è una dolce perdizione, è abbandonarsi alle finzioni del cinema: il rischio dell'illusione c'è e se ne pagano le conseguenze.
Nel finale del film, Cecilia deve scegliere tra Tom e Gill e predilige l'attore al personaggio, che però si rivelerà un vile fedifrago abbandonandola al suo destino dopo aver ottenuto il suo scopo. Sta tutta qui la considerazione finale di questo film: di fronte alla ingordigia degli uomini veri, meglio la vacuità degli uomini dello schermo. Una professione di amore incondizionato e disperato al mondo delle luci e ombre in movimento.
Una considerazione: credo che la partecipazione a "Scemo & Più Scemo" sia stato l'errore più grande della vita di Jeff Daniels, che da quel momento in poi ha assunto l'etichetta di "Quellodiscemoepiùscemo" e non gli si stacca di dosso. A Jim Carrey è andata decisamente meglio.
Sì, la locandina è tremenda.


lunedì 11 novembre 2013

Dillinger è morto (Marco Ferreri, 1969)

Iniziamo la settimana colmando una lacuna. Non ho mai visto questo film celebre di Ferreri (un regista che mi lascia di solito piacevolmente smarrito) e approfitto della sveglia mattutina precoce per godermelo col caffé.
Michel Piccoli è Glauco, un tecnico industriale di mezza età che vive con la moglie e la cameriera in un ricco appartamento romano. Una sera, di rientro dal lavoro, nel preparare un risottino scova, all'interno di un armadio, una vecchia pistola arrugginita. Il vecchio proprietario potrebbe essere il celebre Dillinger del titolo, visto che l'arma è avvolta all'interno di vecchi fogli di quotidiano che annunciano la morte del gangster.
Il resto del film accompagna le stanche e abitudianrie attività del protagonista, che allo stesso tempo compie opera di restauro della pistola, che gli servirà verso la fine della vicenda per dare una svolta definitiva al suo vivere quotidiano.
Ferreri dà qui vita a una efficace quanto amara satira di costume, in cui se la prende come d'abitudine con la middle-class impiegatizia e la sua sostanziale disperazione. Innumerevoli i richiami all'arte figurativa - su tutti ricordo la bellissima rielaborazione pop della pistola - e i riferimenti al campo della psicanalisi. Il personaggio di Piccoli è molto ben articolato, anche per libera iniziativa dell'attore.
Tra la grande varietà dei temi, credo di riconoscere il più interessante nella rappresentazione del rapporto del protagonista con le rappresentazioni figurative. Nella prima parte del film egl
i parla con i personaggi della tivù, oppure proietta i filmini delle vacanze tentando un approccio con le avvenenti ragazze sullo schermo.
Ebbene ,questo rapporto contorto e castrante con le immagini rappresentative della realtà è superato, in una sorta di procedimento di auto-analisi, nel processo di scoperta e di restauro della vecchia pistola, che viene addirittura ridipinta di rosso e abbellita da dei pois bianchi.
Dal frustrante rapporto con le immagini bidimensionali all' appagante riappropriarsi della realtà dunque, in un rapporto che sembra riproporre i percorsi delle arte contemporanee degli anni '60.
Per la cronaca: la bellissima cucina in cui recita Piccoli appartiene ad una villa di Tognazzi, e effettivamente già ci sono tutte le atmosfere della Grande Bouffe.

domenica 10 novembre 2013

Il viale della speranza (Dino Risi, 1953)

Domenica pomeriggio tra l'uggioso e il variabile, decido dunque di affrontare questa pellicola del giovane Risi. Scovata su torrent, è l'ultimo fim di cui avrei voglia, ma vista la situazione meglio affrontarla, visto che potrà tornarmi utile in vista del progetto di ricerca in Francia, di cui parlerò un'altra volta.
Diciamo subito che Risi è agli inizi, di vede e si sente; toccherà le sue punte un decennio più tardi. Ad ogni modo la sostanza c'è.
Il viale del titolo (il riferimento poco nascosto è a Sunset Boulevard di Wilder) è la via Tuscolana, che passa davanti a Cinecittà e accompagna le speranze di folle di aspiranti attori nell'Italia dei primi anni '50.
Tra questa folla di disperati tre emancipate ragazze aspirano a diventare le nuove dive del cinema italiano: Giuditta, piuttosto scarsetta ragazza di provincia, insegue con entusiasmo ma scarsi risultati il suo sogno e deciderà di rientrare nella sua Sassuolo; Franca sceglie, anche lei senza successo, la strada più rapida del flirt col produttore trombone, mentre Luisa (per la quale è evidente la predilezione del nostro Risi e dei suoi sceneggiatori) riuscirà a sfondare grazie alle sue vere doti di recitazione.
Attorno al trio di protagoniste aleggia il consueto nugolo di "mosconi", tra cui spicca uno spigliato (e doppiato in maniera indecorosa) Marcello Mastroianni, un giovane operatore di macchina che come i suoi mediocri colleghi aspiranti registi, condivide con le ragazze i problemi economici.
Gli unici a spassarsela sono insomma i tronfi e tirannici produttori coi loro figliocci, che tra parties in ville mastodontiche e giri in automobile, non hanno altra occupazioni che provarci con le sprovvedute attrici.
Una sorta di Dolce Vita ante-litteram, che però tutto sommato non ha nulla del profondo pessimismo che permeerà l'opera felliniana, propendendo invece per un accomodante moralismo generalizzato.
Su un tema pressochè identico, più felice sarà senz'altro (non a caso nello stesso anno) la riuscita di La signora senza camelie di Antonioni. Qui invece, Risi non sembra particolarmente a suo agio nelle situazioni più drammatiche, ma già emergono, a tratti, le prime note che caratterizzeranno la sua futura carriera nella commedia. Particolarmente spassosa in questo senso la scena della "accademia" d'arte drammatica all'interno della palestra di boxe, dove un povero attore ormai decaduto fa lezione di smorfie a dei malcapitati ragazzi in cerca di gloria.
Menzione speciale per la fotografia contrastata di Mario Bava, che conferisce a tutto il film spiccate atmosfere da noir americano alla Siodmak, anche se alla fine sembra una ricercatezza fine a se stessa.

sabato 9 novembre 2013

Il primo post.

Primo post programmatico.
Ovviamente il titolo è un tributo al cinema di Moretti, ma allo stesso tempo trovo che rappresenti perfettamente la mia condizione attuale. Pressoché disoccupato, freuquento compulsivamente le sale di cinema, nella folle convinzione che ciò possa un giorno diventare un lavoro.
In questo blog troverete (spero spesso) contributi di varia forma e natura relativi al mondo del cinema del futuro o del passato, visto al cinema o a casa.
Contributi sì, ma in varie forme, tra cui critiche, analisi, ma anche invettive, insulti o sfoghi nei confronti del vicino di poltrona che chiacchiera o sgranocchia.
Insomma, un po' di tutto.