giovedì 27 febbraio 2014

Only Lovers Left Alive (Jim Jarmusch, 2013)

Attendevo con una certa fiducia il nuovo film di Jarmusch, nelle sale dal 19 ottobre, dopo la accoglienza ufficiale al Festival di Cannes dello scorso anno. Ancora vampiri? , mi dicevo, anche se in relatà non ho visto tutta la paccottiglia sul genere che ha riempito le sale negli ultimi tempi.
Insomma, lascio passare una settimana, tempo di trovare una proiezione non stracolma, e vado, senza pregiudizi.
Le prime immagini, va detto, esaltano: una sequenza vertiginosa di plongés (forse un riferimento a Vertigo?) ci porta, sulle note di un rock d'antan, da un vinile che gira sul suo piatto alle immagini dei due protagonisti, stesi sui loro divani, in preda a una certa estasti non ben identificata.
I due soggetti in questione appaiono da subito come due gaudenti viveurs, circondati dei simboli della lussuria. Il presente che essi vivono è per noi un futuro non ben precisato, in cui gli unici sopravvissuti su terra sono creature crepuscolari e mostrificate. Lui vive a Detroit ed è un musicista dall'animo post-rock decadentista, colleziona chitarre elettriche provenienti da ogni epoca e si circonda di oggetti di modernariato; lei invece vive a Tangeri, ma in compenso è tecnologicamente più aggiornata e comunica col suo i-phone con tanto di mela in bella vista.
Da un rapido dialogo telefonico tra i due, scopriamo che essi sono coniugi, e nel giro di qualche scena veniamo a sapere che sono vampiri. Si chiamano Adam e Eve (nientepopodimenoche) e la loro luuunga vita li ha portati a conoscere e influenzare migliaia di artisti in tutte le epoche; lui, compositore solitario, ha addirittura composto delle musiche che Schubert gli avrebbe sottratto senza ritegno. Lei in compenso intrattiene un rapporto di stretta amicizia con Christopher Marlowe, il quale non perde occasione per smerdare la memoria di William Shakespeare, anch'egli responsabile di plagio nei suoi confronti.
Di fronte ai propositi di suicidio del marito, Eve lo raggiunge in fretta e furia a Detroit. I due trascorreranno le loro notti tra locali notturni e lunghe peregrinazioni nella vecchia città industriale ormai allo sfascio.
Una trama piuttosto banale che si snoda su una colonna sonora tipicamente "jarmuschiana", in un rock dal ritmo cadenzato e oscuro, una sorta di lunga e continua marcia funebre.
All'interno della casa decadente di Adam e dei paesaggi notturni di Detroit, le frequenti opposizioni di caldi e freddi fanno da sfondo al pallore terreo di un Tom Hiddleton identico a Manuel Agnelli e a una Tilda Swinton dall'abituale pallore terreo.
Nonostante la pregevole fattura e nonostante il regista abbia affermato di non aver mai visto i film di vampiri degli ultimi tempi, l'impressione che resta è però quella di un Jarmusch che si appoggia un po' troppo a stilemi in voga, a partire dalla costruzione dei due personaggi, che si rifanno a canoni ultra-modaioli (l'immaginario emo avrà di che assumere dalla pellicola). La metafora di fondo è chiara: i due personaggi rappresenterebbero la faccia oscura del genere umano, il lato perverso e peccatore di ogni artista, ma i continui riferimenti ironici alle figure maggiori dell'arte e della letteratura del passato assumono alla lunga l'aria della ostentazione saccente. Due palle.
Insomma troppa estetica e, soprattutto, non succede niente per quasi due ore.


lunedì 24 febbraio 2014

Ida (Pawel Pawlikowski, 2013)

Non vedo tutto quello che passa al cinema. Sia per ragioni economiche che perchè mi piace scegliere. Di solito poi la mia selezione si basa su: 1- critiche o pareri altrui, 2-stima che nutro per il regista.
Raramente scelgo i film da vedere in base a quello che vedo nel relativo trailer.
Ebbene, questo è uno di quei rari casi.
Il pianoforte chopiniano, il bianco e nero, gli sguardi, i silenzi, le atmosfere nebbiose; insomma, alla prima occasione mi fiondo a vedere il film. Che, come è giusto, si rivela più bello del trailer.
Polonia 1962. Anna, suora novizia che si appresta a prendere i voti, si reca per qualche giorno in città a trovare la zia, bella donna ormai sfiorita, ex-giudice, fedelissima del regime filo-sovietico ormai dedita all'alcool e alla prostituzione.
La missione della ragazza, alla sua prima uscita dal convento, è quella di conoscere la storia dei propri genitori, morti durante la guerra.. Assieme alla zia compirà uno sconvolgente viaggio di formazione: scoprirà la propria vera natura, un passato atroce, e allo stesso tempo  le passioni di una vita normale.

Pawlikowski, regista dal passato documentaristico, affronta nella stessa opera due temi estremamente delicati, anche se all'apparenza molto diversi: la adolescenza, come passaggio all'età adulta, e la dolorosa storia della Polonia degli anni del Dopoguerra.
Per farlo, egli compie scelte registiche decisamente azzardate, dando vita a un ritratto dallo stile severo e rigoroso. Il film è composto nella quasi totalità da piani fissi; i movimenti di macchina sono ridotti a due scene, a inizio e fine vicenda, in cui due lunghi carrelli laterali accompagnano l'arrivo e la partenza dalla città della protagonista. Figurativamente, la messinscena fa ricorso a frequenti décadrages, lasciando i personaggi ai margini di ampie campiture pressochè vuote.
Per completare il quadro minimalista, il regista fa ricorso all'uso di un bianco e nero nitido e scintillante, un vero tocco di classe. Le atmosfere fumose dei locali jazz, le vaste distese della campagna polacca, i tristi interni domestici, tutto trasuda la stessa profonda tristezza, il senso di impotenza opprimente che la giovane protagonista vive.
In 80 minuti scarsi di film il film la vicenda chiude il suo cerchio e si esce dalla sala stupefatti.

sabato 22 febbraio 2014

Warning Sign (Hal Barwood, 1985) e Incubo sulla città contaminata (Umberto Lenzi, 1980)

Appuntamento imperdibile col Cinéma-Bis alla Cinématheque: tema della serata gli zombies. Attendo l'appuntamento come una manna dopo una settimana di Neorealismo.
Il motivo della contaminazione, centrale in tutti i film di questo genere, gode di una tradizione illustre che nasce nell'Ottocento: la mostrificazione (che traforma in vampiri o morti viventi) come metafora delle grandi epidemie di sifilide conseguenti al forte inurbamento.
Al cinema il tema ha fornito il tema per una lunga trafila di opere alcune di ottima qualità; su tutte impossibile dimenticare La notte dei morti viventi, capostipite della serie diretto da Romero, e Zombi 2, capolavoro insuperato di Lucio Fulci.
Una intro molto dotta per due film registicamente piuttosto nulli, ma ad alto tasso di divertimento.
Il primo racconta la storia di un gruppo di scienzati di un laboratorio chimico che resta intrappolato nel proprio laboratorio in seguito alla rottura di una fialetta. La contaminazione costringe la responsabile della sicurezza a sbarrare le porte d'uscita e lentamente i presenti iniziano a zombificarsi e a dare la caccia ai pochi non contaminati. Lo sceriffo del paesino e un ex-scienziato del laboratorio stesso entreranno per salvare i superstiti trovando alcuni ritagli di tempo per mettere a punto un antidoto alla contaminazione e per diagnosticare una gravidanza alla addetta alla sicurezza.
Il film è del 1985, esattamente come The toxic avenger, e potrebbe benissimo uscire dalla Troma di Lloyd Kaufman: una sceneggiatura prevedibile per una regia piuttosto banale e una recitazione irrigidita (per usare un trio di eufemismi piuttosto forzati). Persino l'aspetto su cui solitamente tali film basano il loro successo, gli effetti speciali, sono qui praticamente assenti e si limitano all'uso di un tubo al neon "wood" per riconoscere la contaminazione sul viso delle vittime. Patetico.
Una cosa certa è che Hal Barwood, poco dotato compagno di Steven Spielberg al College, deve aver visto più volte Shining e non si fa scrupolo di nasconderlo, visto che ogni dieci minuti si sente in dovere di dotare di ascie gli scienziati zombizzati per far loro sfasciare delle porte. Citazioni gratuite che, se possibile, rendono il prodotto ancor più imbarazzante.
Vagamente migliore, anche se non saprei dire perché, il secondo film. Forse perchè diretto da un regista che stimo come Umberto Lenzi, che, seppur cineasta "a tanto al chilo", ha saputo regalarci perle come "Il trucido e lo sbirro"  o "Milano odia", che comunque restano capisaldi.
In questo caso credo ci sia un problema di budget, o di sceneggiatura, o di attori, o forse di tutto, perché il film non decolla quasi mai. Al contrario inizia -bellissima l'idea iniziale- con un atterraggio: un velivolo militare non annunciato arriva nell'aeroporto della città X; ne esce una nutrita banda di zombi inferociti che, incuranti delle pallottole, fanno piazza pulita dei soldati giunti ad accoglierli.
Un cronista televisivo giunto per caso nelle vicinanze assiste alla scena e torna nei suoi studi per diffondere la notizia. Ma i vertici militari sono rigidi: non bisogna turbare il popolo, la notizia rimarrà sotto segreto.
Ma ecco che all'improvviso gli zombies fanno irruzione nel bel mezzo del balletto di un gruppo di showgirls, sgozzandone una buona dozzina. Da quel momento, l'orda dilaga. Il cronista e la sua consorte intraprenderanno una fuga disperata che troverà il suo epilogo nel suggestivo scenario di un Luna Park.
Questo secondo film se non altro ha dalla sua un uso di effetti speciali di stampo gore piuttosto ben fatti, che trovano il loro culmine nelle scene finali, in cui le teste degli zombies vengono fatte esplodere come cocomeri.
Per il resto è tutta una pletora di "mezzucci" solleticanti: solo in questo senso può spiegarsi il fatto che qualsiasi mostro, prima di sgozzare la propria vittima femminile, si senta in dovere di strapparle camicetta e reggiseno al cospetto della macchina da presa...
Il film è ad ogni modo genericamente ricordato per una trasgressione alla tradizione filologica relativa ai "morti viventi" : gli zombies del film non arrancano ciondolanti come al solito, ma al contario corrono, saltano e usano attrezzi come le persone normali. L'unico elemento che li distingue da questi ultimi è la crosta tipo "pizza andata a male" che ricopre larghe porzioni dei loro volti.
Considerazione amara di rito: il pubblico in sala ha passato i 202 minuti di proiezione dei due film a ridere sguaiatamente delle evidenti goffaggini che caratterizzavano i film stessi.
Ma io mi dico: se vai a vedere un film così, o accetti di scendere al suo livello e ti diverti, oppure scegli un altro film!
Se devi per forza ergerti a giudice dell'estetica, stai perdendo il tuo tempo e sei un coglione, ed è meglio se rincasi a vedere Godard su DVD.



martedì 18 febbraio 2014

12 Years a Slave (Steve McQueen, 2013)

La vera ragione per cui passo buona parte del mio tempo in Francia consiste nel fatto che i film tosti (e anche gli altri) qui escono per lo meno con due mesi di anticipo rispetto all'Italia. Questo mi permette di impartire giudizi farneticanti su molte opere senza che i miei compatrioti abbiano modo di verificarne la legittimità.
In questo caso arrivo entro in scivolata all'ultimo minuto per parlare del terzo e ultimo film di Steve Mc Queen, che per chi non lo conoscesse non ha a che fare con film di automobili se non per questioni di omonimia. In realtà la precisazione è quasi superflua, visto che il regista (ex video-artista) inglese ha già fatto parlare di sè piuttosto lungamente con Shame, in cui Fassbender interpretava un'uomo ossessionato dal sesso in una New York triste e oscura. Il successo del film aveva portato al rilancio (almeno in Italia, dove dormiamo della grossa) del film precedente, Hunger, bellissimo e durissimo film basato sulla storia di Bobby Sands.
Torna in grande stile McQueen, dopo una campagna pubblicitaria massiccia, (con le 9 nominations agli Oscar che non guastano) e lo fa con un soggetto tratto da una storia vera (il romanzo-diario di Solomon Northup) e che punta di nuovo fortemente sul politico. Solomon Northup è uno dei tanti  free negros che nella metà del diciannovesimo secolo vivono nello stato di New York.Ha moglie e figli e conduce una agiata vita piccolo borghese. Il bonaccione un brutto giorno viene adescato da due "cacciatori" senza scrupoli i quali, dopo averlo ubriacato a dovere, lo vendono a uno schiavista degli stati del Sud. Inizia così la lunga serie di peripezie del malcapitato, che finirà a lavorare per un sadico-mistico molto ben interpretato dall'ormai affezionato Michael Fassbender. Dodici anni di esperienze terribili segneranno la vita dell'uomo senza piegarne la dignità.
Il cinema di McQueen torna a parlare della nostra anima mettendo in scena la nostra essenza più concreta, vale a dire la nostra carne. Come nelle due precedenti esperienze, la macchina da presa indugia sui corpi dei protagonisti, ci fa assistere senza pudore alle loro esperienze più dolorose. Lo fa attraverso piani sequenza che, rifuggendo qualsiasi virtuosismo fine a se stesso, risultano a volte difficili da sostenere: vedi a questo proposito la scena del tentativo di impiccagione di Solomon, da brividi.
La natura contemplativa dello sguardo di SMQ si rivolge però anche altrove: alla natura lussureggiante e inquietante dell'Alabama soprattutto e ai capi di cotone punteggiati di schiavi e percorsi da bellissimi spirituals intonati dagli stessi. Bellissimi poi gli interni, raffinatissimo e curatissimo l'uso delle luci, che può ricordare a volte il Kubrick di Barry Lindon
Tutto questo bel pacchetto vorrebbe portare al suo interno un messaggio politico e antirazzista incisivo, ma in fin dei conti l'impressione finale è quella di tornare a canoni hollywoodiano-liberals piuttosto standard, anche in termini di contenuto.
"I don't want to survive. I want to live" proclama eroicamente il protagonsta all'inizio del film; in fin dei conti però, assistiamo alla storia di un uomo che cerca di sopravvivere, non alla storia di un uomo che lotta. Per salvare la pellaccia il nostro accetta qualsiasi soverchieria e si barcamena nel suo dolore senza che esso si trasformi in rabbia o reazione, sebbene egli abbia già conosciuto la libertà.
Tutto ciò è lecito, ma allora non si spacci il film per un "film politico", altrimenti il film rientra in fenomeni vuoti di significato reale come il film The Butler o l'elezione di Obama a Presidente degli Stati Uniti.
Imbarazzante -non posso non dirlo- il fatto che l'uomo della svolta sia Brad Pitt, che guarda caso ha prodotto il film, e che rappresenta perfettamente l'ala gauche-caviar di Hollywood.

Bellissimi infine gli effetti sonori astrospaziali e le urla in giapponese fuori campo: un vero valore aggiunto al film, fruibile in qualsiasi multisala di merda in cui proiettano a due metri da te l'ultima vaccata di Miyazaki.

martedì 11 febbraio 2014

Niagara (Henry Hathaway, 1953)

Continua alla Cinématheque di Bercy la infinita retrospettiva su Hathaway, regista poliedrico e di conseuenza piuttosto prolifico. Numerosi i film del regista passati tra la sala Langlois e la Franju, incredibilmente oscillanti tra il capolavoroso (Peter Ibbetson e Raw Hide la stessa sera, entusiasmanti) e il patetico, nel senso di inguardabile (The last safari, indegno, gran dormita).
Ieri sera, anche se il lunedì solitamente non offre grandi cose, passano Niagara e io pacco una cena per vederlo per la seconda volta, ma su grande schermo.
I coniugi Cutler (due pupazzi di gomma) giungono in un villaggio vacanze nei pressi delle cascate del Niagara per passarvi alcuni giorni di noia mortale. Ma il bungalow loro riservato è occupato da un'altra coppia, i coniugi Loomis, un Joseph Cotten pallido e smunto e una Marylin Monroe la cui bocca, grazie al Technicolor piuttosto saturo, sembra uscire dallo schermo, per la gioia degli astanti. Ebbene, le due coppie in questione sono ai poli opposti: se la prima è "Mulino Bianco", la seconda è più normale: lei ha un amante, lui sta malissimo e passa e sue giornate sulle rocce delle cascate interrogandosi sulla potenza della natura e sull'impotenza dell'uomo al suo cospetto.
Mentre i coniugi Cutler fanno di tutto per farsi derubare dal florido settore turistico locale, i Loomis si dedicano a attività più parsimoniose, come copulare, litigare, ferirsi, progettare le rispettive morti.
Sarà proprio la signora Loomis a dare il via al suo piano di assassinio del marito, che farà mettere i pratica dal suo sprovveduto amante.
Il tema del rapporto uomo-natura è al centro di tutta l'opera di Hathaway: boschi, laghi, mare, montagne, praticamente ha ambientato i suoi film in ogni tipo di paesaggio, e sono pochi i suoi film di ambientazione prettamente urbana.
In questo caso direi che raggiungiamo il limite. Le cascate sono praticamente le protagoniste del racconto e si cerca in tutti i modi di far passare la visione metaforica secondo la quale la loro potenza inarrestabile sarebbe il corrispettivo delle trascinanti passioni che travolgono i personaggi.
In tutta franchezza questo obiettivo sembra raggiunto a metà, nel senso che la vera passione tra i personaggi non arriva mai a livelli stratosferici, e le cascate diventano il più delle volte una suggestiva scenografia.
Il cast poi non aiuta: il solo Cotten spicca grazie ad una vera interpretazione del personaggio travagliato dalla coscienza della infedeltà della moglie. In seconda posizione, da salvare è Jean Peters, mentre la Monroe è evidentemente in difficoltà in un ruolo da dark lady che infatti non ricoprirà mai più. A dir poco macchiettistico il personaggio di Cutler, un tonto dallo sguardo inebetito alla Formigoni.
Genericamente mal reputato dalla critica, il film non è però tutto da buttare. Su tutte, bellissima la scena dell'assassino di....(niente spoiler, qui), in cui la scenografia da cinema espressionista tedesco esalta estremizzandole tutte le migliori caratteristiche visive del noir classico anni '50.
Pubblico in visibilio, applausi al cinema, che fa tanto cinéphile.

giovedì 6 febbraio 2014

True Grit (Henry Hathaway, 1969)

Henry Hathaway è Hollywood. Nel senso che pochi registi incarnano meglio lo spirito nazionalistico-spettacolare del cinema statunitense. Durante la sua lunga carriera Hathaway ha diretto di tutto: noirs, film di guerra, documentari, commedie, film drammatici, ma soprattutto tanti tanti western, soprattutto negli anni '60.
E' proprio alla fine del decennio che gira True Grit, quando ormai il genere, inteso in senso holywoodiano tradizionale appunto, è sul viale del tramonto. Sergio Leone e Sam Peckinpah sono su piazza già da alcuni anni, e il genere sta andando altrove.
Quello cui dà vita in questo caso Hathaway è un western dall'impianto base del tutto tradizionale, e che attore scegli se devi metter su un western TRADIZIONALE? Esatto. Bisogna ammettere che il nostro John è ormai un catorcio : acciaccato, sovrappeso, visibilmente affaticato. D'altronde a sesantadue anni mica puoi saltare staccionate come un ragazzino, quindi i fotomontaggi in cui compie evoluzioni esagerate a cavallo hanno del ridicolo.
Ma hoplà! cosa fa il regista rendendosi conto di ciò? L'unica cosa sensata (e a mio avviso geniale) è far recitare a John Wayne esattamente ciò che è: il catorcio-alcolizzato-sovrappeso-sul-viale-del-tramonto. Il risultato è magnifico. Un grande. Non a caso l'unico Oscar della sua infinita carriera d'attore.
La ragazzina Mattie Ross cerca giustizia per il padre, caduto vittima del suo aiutante ubriacone che lo ha lasciato con un palla in corpo squagliandosela col suo cavallo e due monete d'oro. Per perseguire il suo scopo, ingaggia  Rooster Cogburn, un cacciatore di taglie ormai vecchio e disilluso, il cui unico scopo è rimediare la grana per pagarsi da bere. Il beone è sul punto di partire per rimediare i suoi 100 dollari, quand'ecco che arriva La Beef, un texas ranger (più bello di Chuck Norris ma meno ficoso) alla ricerca anch'egli dell'assassino in questione. I due partiranno alla ricerca raggiunti molto presto da Mattie, che pretenderà di sparare lei stessa all'assassino del padre con la enorme pistola appartenuta a quest'ultimo.
Come dicevo, il personaggio di Wayne è ben giocato, e non fa rimpiangere i vecchi film di John Ford. Anzi, la figura dell'anti-eroe è perfetta per permettere al western di prendersi in giro e constatare oramai il defiitivo superamento dell'idea di eroe senza macchia e senza paura. Tra le parti più divertenti del film sono proprio le sonore sbronze che il buon Cogburn si prende, durante le quali si diverte a stuzzicare il pecoraro texano sottoponendolo a un'infinità di epitieti, tra cui il più buono è Texican.
Spiace constatare che il personaggiodi Wayne batte in partenza quello interpretato da Jeff Bridges nel remake del 2010 diretto dai fratelli Coen. Insomma, lodevole l'idea di riproporre classici dimenticati, ma in quel caso non ci siamo proprio.

mercoledì 5 febbraio 2014

San Babila, ore venti. Un delitto inutile (Carlo Lizzani, 1976)

Seconda volta a parlare di un film di Lizzani. ma lungi da me l'intento necrologico.
La Cinemathèque passa questa rarità del cinema italiano che per lungo tempo ho desiderato vedere e non me la posso lasciar scappare.
E' che il cosiddetto cinema politico anni '70 mi ha da sempre affascinato: braghe a zampa e P38, brillantina, baffi neri e Alfa Giulie, insomma quell'immaginario lì. Tutto bello e stiloso a vederlo da qui. Il problema,(e un po' la colpa) di questo tipo di cinema (motivo per cui era odiato dalla quasi totalità dei movimenti) è il fatto di spettacolarizzare la politica senza intaccare, denunciare, o per lo meno approfondire un attimo il contesto sociale. Le dovute eccezioni vanno fatte: Petri in particolare.
In questo caso Lizzani parte da un fatto di cronaca della Milano di quegli anni e l'intento di stampo nerorealista è denunciato da subito nel titolo di stampo giornalistico. Il riferimento fin troppo evidente è al bellissimo Roma ore 11 girato nel 1951 da De Santis su sceneggiatura di Zavattini.
Nobili intenti insomma per il nostro Lizzani, che da sempre interessato al sordido del nostro sventurato paese questa volta decide di parlare dei fascistelli figli della borghesia meneghina.
Il film si snoda lungo una intera giornata al seguito di un gruppetto di "sanbabilini" appunto, e li accompagna nel loro delirio fatto di risse, tentativi di attentati, contatti con servizi segreti, insomma tutto il repertorio della vulgata. Alle 20 toccheranno il fondo della loro folle spirale commettendo l'irreparabile.
Le ambientazioni sono simili a quelle della Milano grigiastra che Lizzani aveva già rappresentato in Banditi a Milano (1967). Il problema è che all'epoca c'era Volonté nei panni di Cavallero a tenere in piedi tutto il film con una delle sue interpretazioni migliori. Ora invece Lizzani, per rifarsi alla dimessa poetica neorealista opta per un casting sottotono senza attori conosciuti e il risultato si vede: la recitazione dei quatto fascistelli è quanto meno ingessata, oppure a volte mal controllata.
Per quanto riguarda la sceneggiatura, cui ha partecipato inspiegabilmente Ugo Pirro, ne emergono personaggi che definire stereotipati è riduttivo. Si passa dall'eminenza grigia tipo "servizio segreto" con baffo nero e impermeabile, alla femminista con sciarpa rossa che dà dell'impotente ai fasci, passando per il sindacalista che si esprime esclusivamente attraverso massime di Lenin.
Infine c'è tutta la trafila di idee di stampo reichiano che evidentemente il buon Pirro ha preso a piene mani dai suoi trascorsi alla macchina da scrivere al fianco del buon Petri: ne emerge la logica piuttosto bislacca, o comunque non sufficente, secondo la quale i fascisti non sono altro che dei repressi frustrati sessualmente, troppo attaccati alla madre o in lotta col padre-padrone (Edipo 'ncora?)
Patetica infine la lunga presentazione della vittima, bravo ragazzo futuro padre di famiglia, sindacalista dalle grandi speranze, pecora designata per il branco di lupi.
Insomma siamo ad anni luce dal già citato Banditi a Milano, film che aveva dato il via alla stagione del poliziottesco italiano, in cui si spettacolizzava il crimine su schemi da cinema americano e francamente ci si divertiva. Qui l'intento moralizzatore la fa da padrone ed è una barba da subito e fino alla fine.