martedì 18 febbraio 2014

12 Years a Slave (Steve McQueen, 2013)

La vera ragione per cui passo buona parte del mio tempo in Francia consiste nel fatto che i film tosti (e anche gli altri) qui escono per lo meno con due mesi di anticipo rispetto all'Italia. Questo mi permette di impartire giudizi farneticanti su molte opere senza che i miei compatrioti abbiano modo di verificarne la legittimità.
In questo caso arrivo entro in scivolata all'ultimo minuto per parlare del terzo e ultimo film di Steve Mc Queen, che per chi non lo conoscesse non ha a che fare con film di automobili se non per questioni di omonimia. In realtà la precisazione è quasi superflua, visto che il regista (ex video-artista) inglese ha già fatto parlare di sè piuttosto lungamente con Shame, in cui Fassbender interpretava un'uomo ossessionato dal sesso in una New York triste e oscura. Il successo del film aveva portato al rilancio (almeno in Italia, dove dormiamo della grossa) del film precedente, Hunger, bellissimo e durissimo film basato sulla storia di Bobby Sands.
Torna in grande stile McQueen, dopo una campagna pubblicitaria massiccia, (con le 9 nominations agli Oscar che non guastano) e lo fa con un soggetto tratto da una storia vera (il romanzo-diario di Solomon Northup) e che punta di nuovo fortemente sul politico. Solomon Northup è uno dei tanti  free negros che nella metà del diciannovesimo secolo vivono nello stato di New York.Ha moglie e figli e conduce una agiata vita piccolo borghese. Il bonaccione un brutto giorno viene adescato da due "cacciatori" senza scrupoli i quali, dopo averlo ubriacato a dovere, lo vendono a uno schiavista degli stati del Sud. Inizia così la lunga serie di peripezie del malcapitato, che finirà a lavorare per un sadico-mistico molto ben interpretato dall'ormai affezionato Michael Fassbender. Dodici anni di esperienze terribili segneranno la vita dell'uomo senza piegarne la dignità.
Il cinema di McQueen torna a parlare della nostra anima mettendo in scena la nostra essenza più concreta, vale a dire la nostra carne. Come nelle due precedenti esperienze, la macchina da presa indugia sui corpi dei protagonisti, ci fa assistere senza pudore alle loro esperienze più dolorose. Lo fa attraverso piani sequenza che, rifuggendo qualsiasi virtuosismo fine a se stesso, risultano a volte difficili da sostenere: vedi a questo proposito la scena del tentativo di impiccagione di Solomon, da brividi.
La natura contemplativa dello sguardo di SMQ si rivolge però anche altrove: alla natura lussureggiante e inquietante dell'Alabama soprattutto e ai capi di cotone punteggiati di schiavi e percorsi da bellissimi spirituals intonati dagli stessi. Bellissimi poi gli interni, raffinatissimo e curatissimo l'uso delle luci, che può ricordare a volte il Kubrick di Barry Lindon
Tutto questo bel pacchetto vorrebbe portare al suo interno un messaggio politico e antirazzista incisivo, ma in fin dei conti l'impressione finale è quella di tornare a canoni hollywoodiano-liberals piuttosto standard, anche in termini di contenuto.
"I don't want to survive. I want to live" proclama eroicamente il protagonsta all'inizio del film; in fin dei conti però, assistiamo alla storia di un uomo che cerca di sopravvivere, non alla storia di un uomo che lotta. Per salvare la pellaccia il nostro accetta qualsiasi soverchieria e si barcamena nel suo dolore senza che esso si trasformi in rabbia o reazione, sebbene egli abbia già conosciuto la libertà.
Tutto ciò è lecito, ma allora non si spacci il film per un "film politico", altrimenti il film rientra in fenomeni vuoti di significato reale come il film The Butler o l'elezione di Obama a Presidente degli Stati Uniti.
Imbarazzante -non posso non dirlo- il fatto che l'uomo della svolta sia Brad Pitt, che guarda caso ha prodotto il film, e che rappresenta perfettamente l'ala gauche-caviar di Hollywood.

Bellissimi infine gli effetti sonori astrospaziali e le urla in giapponese fuori campo: un vero valore aggiunto al film, fruibile in qualsiasi multisala di merda in cui proiettano a due metri da te l'ultima vaccata di Miyazaki.

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