mercoledì 5 febbraio 2014

San Babila, ore venti. Un delitto inutile (Carlo Lizzani, 1976)

Seconda volta a parlare di un film di Lizzani. ma lungi da me l'intento necrologico.
La Cinemathèque passa questa rarità del cinema italiano che per lungo tempo ho desiderato vedere e non me la posso lasciar scappare.
E' che il cosiddetto cinema politico anni '70 mi ha da sempre affascinato: braghe a zampa e P38, brillantina, baffi neri e Alfa Giulie, insomma quell'immaginario lì. Tutto bello e stiloso a vederlo da qui. Il problema,(e un po' la colpa) di questo tipo di cinema (motivo per cui era odiato dalla quasi totalità dei movimenti) è il fatto di spettacolarizzare la politica senza intaccare, denunciare, o per lo meno approfondire un attimo il contesto sociale. Le dovute eccezioni vanno fatte: Petri in particolare.
In questo caso Lizzani parte da un fatto di cronaca della Milano di quegli anni e l'intento di stampo nerorealista è denunciato da subito nel titolo di stampo giornalistico. Il riferimento fin troppo evidente è al bellissimo Roma ore 11 girato nel 1951 da De Santis su sceneggiatura di Zavattini.
Nobili intenti insomma per il nostro Lizzani, che da sempre interessato al sordido del nostro sventurato paese questa volta decide di parlare dei fascistelli figli della borghesia meneghina.
Il film si snoda lungo una intera giornata al seguito di un gruppetto di "sanbabilini" appunto, e li accompagna nel loro delirio fatto di risse, tentativi di attentati, contatti con servizi segreti, insomma tutto il repertorio della vulgata. Alle 20 toccheranno il fondo della loro folle spirale commettendo l'irreparabile.
Le ambientazioni sono simili a quelle della Milano grigiastra che Lizzani aveva già rappresentato in Banditi a Milano (1967). Il problema è che all'epoca c'era Volonté nei panni di Cavallero a tenere in piedi tutto il film con una delle sue interpretazioni migliori. Ora invece Lizzani, per rifarsi alla dimessa poetica neorealista opta per un casting sottotono senza attori conosciuti e il risultato si vede: la recitazione dei quatto fascistelli è quanto meno ingessata, oppure a volte mal controllata.
Per quanto riguarda la sceneggiatura, cui ha partecipato inspiegabilmente Ugo Pirro, ne emergono personaggi che definire stereotipati è riduttivo. Si passa dall'eminenza grigia tipo "servizio segreto" con baffo nero e impermeabile, alla femminista con sciarpa rossa che dà dell'impotente ai fasci, passando per il sindacalista che si esprime esclusivamente attraverso massime di Lenin.
Infine c'è tutta la trafila di idee di stampo reichiano che evidentemente il buon Pirro ha preso a piene mani dai suoi trascorsi alla macchina da scrivere al fianco del buon Petri: ne emerge la logica piuttosto bislacca, o comunque non sufficente, secondo la quale i fascisti non sono altro che dei repressi frustrati sessualmente, troppo attaccati alla madre o in lotta col padre-padrone (Edipo 'ncora?)
Patetica infine la lunga presentazione della vittima, bravo ragazzo futuro padre di famiglia, sindacalista dalle grandi speranze, pecora designata per il branco di lupi.
Insomma siamo ad anni luce dal già citato Banditi a Milano, film che aveva dato il via alla stagione del poliziottesco italiano, in cui si spettacolizzava il crimine su schemi da cinema americano e francamente ci si divertiva. Qui l'intento moralizzatore la fa da padrone ed è una barba da subito e fino alla fine.


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