lunedì 20 gennaio 2014

Dogville (Lars Von Trier, 2003)

La Cinémathèque ha messo in piedi, per questi mesi invernali, un ciclo dal titolo di Panoptismes. Il tema cardine della serie è quello dello sguardo, della smania si vedere che avvolge questo mondo come una malattia. Essa si traduce nelle inumerevoli immagini che passano attraverso i media di massa come Internet o a TV, ma si traduce anche, come aveva compreso Foucault, in spietato mezzo di controllo sulle masse. Lo sguardo del potere è sguardo di controllo e oppressione.
Domenica pomeriggio piuttosto down, mi esalto non poco a sapere della proiezione di Dogville. Parto per passeggiatina-ripiglio al Parco Monceau, dove il più della fatica è schivare le masse di parigini altolocati vestiti da sub che fan jogging tra bambini in età prescolare. Senza indugio riprendo la metro e mi rifugio alla Cinémathèque come un cane mugolante nella sua cuccia (il paragone non è a cazzo). I soliti vegliardi, cinéphiles dagli anni'50, riempiono la sala con l'aiuto di una schiera non indifferente di hipster e bobo giunti appositamente per ostentare i baffi nuovi a Nicole Kidman.
Il film l'ho visto più volte, ma su un frustrante schermo di computer, quindi l'occasione è da non perdere, mi dico.
Ammetto che l'inizio non è dei più facili. Devo essere davvero stanco, perchè i primi 15 minuti di film li passo in dormiveglia. Ciò nonostante il film mi ripiglia per i capelli e mi strappa a Morfeo alla fine del primo dei nove capitoli.
Dogville è il nome di una cittadina inesistente (quindi qualunque cittadina statunitense) che mena la sua ripetitiva vita nella miseria più nera degli anni '30. In essa fa la sua improvvisa comparsa Grace, splendida ragazza inseguita da gangsters senza scrupoli, che viene accolta per carità cristiana dal giovane moralizzatore Thomas Edison Jr. Quest'ultimo riesce a fare accettare ai suoi bifolchi e impolverati concittadini la presenza della dolce e sensibile ragazza, che per sdebitarsi si dedica ai mille lavoretti marginali di cui gli abitanti del villaggio non vogliono più occuparsi: mi sembra di sentir la retorica del Pd sui  migranti.
Col passare del tempo infatti, la situazione cambia, e quella che era una convivenza tollerata e ipocrita fa spazio a una situazione di sfruttamento spietato mascherato da amore.
Persino Tom, il paladino del volemose bene, rivelerà tutta il suo egoismo interessato.
Il finale è di quelli che stupiscono.
Che c'entra tutto ciò coi panoptismes? C'entra, perchè la scena è un palco completamente nero, sui cui case e strade sono tracciate di bianco sul pavimento come se fosse una lavagna. Nessuna parete a delimitare le case, pochissimi gli elementi architettonici, e tutti simbolici, come la campana, sospesa nel vuoto e la vetrina dell'emporio.
Su di esso i personaggi si muovono come nel mondo reale, in un universo diegetico coerente e ben giocato anche a livello sonoro (i passi sulla ghiaia in strada, quelli sul tavolato nelle case,...).
Von Trier rimuove qualsiasi ostacolo visivo e metaforizza in modo piuttosto evidenti il ruolo di un regista europeo di fronte alla società americana: mettere a nudo le storture e le mostruosità di cui la terra dell'american dream è stata sin troppo spesso la culla.
In questa umanità melmosa e spietata Grace (una grazia ben lontana da quella che possiamo supporre) scende come un angelo vendicatore, un Cristo spietato che farà piazza pulita di ogni peccato in modo tutt'altro che compassionevole.
Se a livello registico Von Trier è ancora all'interno degli schemi del Dogma 95 (la camera è utilizzata prevalentemente a mano),compaiono spesso piani in posizione plongée e l'uso delle musiche extradiegetiche è piuttosto insistito e usato in chiave drammatica.
Insomma, un Dogma da vendere.
Il finale è esaltante, soprattutto i titoli di coda.
Esco dal cinema che sono uno straccio e rincaso.

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