giovedì 22 maggio 2014

Deux jours, une nuit (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2014)

A Parigi iniziano a uscire i film di Cannes e il giorno prima della partenza per l'Italia faccio in tempo a vedere il film dei Dardenne, tra i papabili vincitori della Palma d'oro. Al ballottaggio con la Julianne Moore esaurita di Gus Van Sant preferisco il realismo sobrio dei fratelli belgi.
Sandra (una smunta Marion Cotillard) è appena uscita da una profonda depressione e rischia il posto di lavoro nella piccola fabbrica in cui lavora. Ai suoi colleghi la direzione ha imposto un crudele referendum: un premio di mille euro se votano per il suo licenziamento, niente premio e tutto come prima se votano perchè la ragazza resti. Lei vive in una casetta middleclass in una cittadina belga col marito (un bravo Fabrizio Rongione) e i due bambini. La malcapitata avrà un weekend (i due giorni del titolo) per convincere i propri colleghi ad avere pietà di lei.
La tematica socio-personale è da sempre presente nell''opera dei Dardenne; l'attenzione verso le situazioni estreme ed emarginate, vedi Rosetta e L'Enfant, ritorna con costanza lungo il filo del loro discorso, ponendoli tra gli autori più coerenti del panorama europeo.
La semplicità e la linearità delle loro sceneggiature è sconvolgente, e la loro regia d'altronde gode delle medesime caratteristiche, eppure i dardenne ti tengono incollato allo schermo. Come faranno?
Semplicemente, la loro camera si attacca al personaggio e lo ama come sono il suo occhio sa fare; a quel punto per lo spettatore è semplice: egli si trova a vivere la vicenda del personaggio quasi in prima persona, ne sente e ne condivide le gioie (poche ) e le sofferenze (estreme).
Nel caso di questo film poi, la vicinanza al personaggio di Sandra è di una intimità commovente.
Interessantissimo, poi, il lavoro sull'attrice. La Cotillard è la prima stella del cinema francese, acclamata in Europa e a Hollywood, modella principale delle principali case di moda transalpine: ebbene i Dardenne la prendono di peso, le levano brutalmente il trucco e i vestiti di marca, e la sbattono nella parte di una semi-proletaria imbottita di Xanax. Una operazione che potrebbe ricordare quella che Rossellini mise in atto con la Bergman in Viaggio in Italia (1954). All'epoca il Maestro accolse la attrice proveniente da Hollywood per assegnarle la parte di una nobile decaduta in preda a una crisi personale e matrimoniale, la imbruttì volutamente e la inserì in un racconto sfilacciato. Qui i Dardenne tengono salde le redini della trama, ma in compenso forzano oltre ogni limite il percorso agli Inferi della protagonista, che supera la prova dimostrando di essere una interprete eccezionale.
Tifiamo Palma d'oro, in attesa di vedere il cane di Godard.

mercoledì 14 maggio 2014

Night Moves (Kelly Reichardt, 2013)

Post pacato alla Marzullo.

Presentato in anteprima all'ultimo festival di Venezia, Night moves arriva lungo sugli schermi francesi.
La chiusura settimanale della Cinémathèque (grandi scoperte epsteiniane in questo periodo), la scarsità di alternative e il prezzo ridottissimo del martedì mi inducono a scegliere senza troppo entusiasmo il film in questione.
Il titolo è da horror, e le atmosfere non lo tradiscono, ma contro ogni aspettativa, Night Moves è il nome di una piccola imbarcazione cabinata da diporto. In un bosco perso chissà dove tra le foreste statunitensi, tre ambientalisti radicale decidono di acquistare il suddetto natante per imbottirlo di esplosivo e compiere un atto di sabotaggio...
Il tema dell'ambientalismo si ripresenta sempre più spesso nel cinema hollywoodiano "d'autore": mi viene in mente subito il non eccelso Promised Land di Gus Van Sant; in questo caso però il tema del salvataggio della natura è adoperato in maniera del tutto strumentale. Se cominciamo il film interrogandoci sulle ragioni del loro gesto in chiave politica (e su come il film le presenta), ben presto passiamo ad argomenti molti più ampi, più umani, e se vogliamo, piu "esistenziali".
Quello che interessa alla regista (co-autrice della sceneggiatura) è seguire il percorso di discesa dell'animo dei protagonisti nel baratro ineluttabile del senso di colpa. A voler scomodare nomi di un certo calibro, direi che ne deriva un interessante "Delitto e castigo" dei giorni nostri.
Il tutto è avvolto in una ben costruita atmosfera grigia e opprimente che ricorda molto da vicino quella di Un tranquillo weekend di paura.
Ne risulta insomma uno psycho-thriller piuttosto appassionante, che sa utilizzare in maniere molto pertinente i "tempi-morti", facendo montare al massimo il senso di straniamento e la suspense dello spettatore.
Qualche miglioramento poteva essere apportato in fase di sceneggiatura. Un esempio su tutti: maldestramente caricaturale la battuta in cui il protagonista afferma di compiere il suo gesto per vendicare i salmoni "uccisi per caricare gli ipod". Sul momento mi irrito, ma visto che il film non parla di ambientalismo, soprassiedo.

lunedì 12 maggio 2014

The Amazing Spider-Man 2 (Marc Webb, 2014)

Premessa uno. Non ho mai visto uno Spider-Man; a malapena conosco i film sui super eroi, nobili eccezioni fatte per i Batman di Burton e di Nolan.
Premessa due. Non avevo mai visto un film in 3D prima di ieri mattina.
Le due premesse soprastanti costituiscono anche il motivo per cui ho deciso di approfittare degli sconti-matinée del Grand Rex , storica immensa sala sui Grands Boulevards. La sala è gigante, bellissima, tutta decorata in stile arabo-orientale che sembra di essere a Rabat. D'altronde il cinema è storicamente luogo di evasione esotica, e a Parigi non è raro imbattersi in sale in stile "tomba-egizia" (il Louxor, a Barbès) o "tempio orientale" (la Pagode, in rue de Babylone).
L'occasione in questo caso è ancor più ghiotta perchè al modico prezzo di 5 euro mi posso beccare la proiezione su schermo "grand-large", la mioglior esperienza 3-D in Francia, a detta di moltti.
Arrivo in sollucchero nonostante le caccole oculari e mi accomodo assicurandomi una certa distanza da bambinume sgranocchiante.
La storia è nota ai più: Spider Man cresce con la mamma di Mrs Doubtfire nella più classica delle  villette medio-borghesi americane. Ma la sua cameretta di adolescente medio(cre) cela un segreto: un poster di Aung San-su Ki accanto a quello di Blow Up di Antonioni (!!!!!!!?????!?!??!?!??!?!"Dio, perdona loro...").
Insomma l'alter-ego dell'Uomo Ragno è un giovane intellettuale liberal, che però nel tempo libero dissimula alla grande passando la totalità del proprio tempo a intrattenere interminabili discussioni stile Dawson's Creek (letteralmente, "ti amo perchè ti amo troppo"...) con una biondina figlia di uno sbirro che ogni tanto appare come visione (non ho visto gli altri episodi per cui non so spiegare il motivi di tali epifanie).
Nei ritagli di tempo, il nostro si diletterà a salvare il mondo intero dalla distruzione totale. Fine.
Di tutte le menate su grandi poteri-grandi responsabilità nemmeno l'ombra.
Da antologia tuttavia è l'apparizione di un irriconoscibile Paul Giamatti nei panni di un dirottatore di camion: decorato di un simpatico filo spinato tatuato in piena fronte, il nostro impersona il terrorista senza cervello, che in occasione del centenario dello scoppio della Grande Guerra è dotato di un per-nulla-razzista accento serbo.
Non avendo trovato magliette "Speziale Libero" della sua taglia, il mostro in questione può fare orgoglioso sfoggio, sul polpaccio sinistro, di un ameno tatuaggio Falce&martello memore dei bei tempi andati.

Qualche impressione riguardante lo specifico del 3D: ebbene, dopo il dovuto stupore dei primi 15 minuti, ho ritenuto doveroso archiviare la trovata sotto la categoria "ennesima bufala".
Se il 3D ha come scopo quello di accrescere l'impressione di realtà. sulla scia della prospettiva rinascimentale, è su una strada inesistente: in questo campo il cinema ha già mostrato quel che doveva mostrare dai tempi dei fratelli Lumière. L'illusione della profondità resta una illusione puramente ottica, non ci sono storie. Se invece, come sembra effettivamente, esso deve fornire al cinema un surplus di spettacolarità, una forzatura della realtà in senso "irreale" o "iperrealista", il mio parere è che la cosa stanchi presto. Insomma, si torna sempre al solito punto: si entra in un film quando c'è una storia e una valida regia a supportare la visione, altrimenti ci si trova presto a vagare con lo sguardo tra le colonnine arabeggianti del cinema, e non c'è 3D che possa riportarti a seguire la vicenda.
Seconda occasione la settimana prossima con Godzilla, ma ammetto che ci vado solo perchè voglio vedere Walter White in 3D.




lunedì 3 marzo 2014

The Grand Budapest Hotel (Wes Anderson, 2014)

Dio o chi per lui sta cercando di dividerci di farci del male di farci annegare, perché in questo preciso istante dovrei essere al cinema a vedere Lettre d'une inconnue di Max Ophuls. Di avviso contrario, una pattuglia di controllori dai denti a sciabola ha pensato bene di incrociare il mio tragitto all'uscita dalla metro. Inspiegabilmente, la tattica denominata "L'abbonamento ce l'ho ma l'ho lasciato a casa" ha sortito l'unico effetto di ritardarmi quel tanto da farmi mancare la proiezione.
Tanto meglio per Voi, devoti amici, che avrete dunque in esclusiva la possibilità di sorbire voluttuosamente la recensione dell'ultima opera del regista più hipster del momento, qualsiasi cosa questo aggettivo voglia dire(credo c'entri con dei baffi a manubrio e delle giacche di tweed).
Ammetto che raramente aspetto con impazienza l'opera di qualche regista; Wes Anderson da qualche anno è un'eccezione, quindi ieri sera con alcuni amici ho approfittato della porta sul retro di un importante cinema parigino per vedere l'ultimo lavoro del suddetto.
Brevemente, si tratta della storia di Zero, giovane facchino del Grand Budapest Hotel, situato in una non bene precisata località montana dell'est europeo nei primi decenni del secolo scorso. Il giovane, un mingherlino di probabili origini indiane, apprende i rudimenti del mestiere sotto l'ala protettiva di Gustave H (un grande Ralph Fiennes), concierge di mezza età, istituzione dell'Hotel, uno che del suo mestiere ha fatto una vera e propria arte. Una vegliarda fedelissima ospite dell'albergo (una irriconoscibile Tilda Swinton) lascia in eredità un dipinto di valore inestimabile all'azzimato impiegato. Il figlio di lei (un machiavellico Adrien Brody) e il suo scagnozzo (un cattivo, crudele, ringhiante, stupendo Willem Dafoe) accusano Gustave H dell'omicidio della vecchia, lo mandano in galera e fanno di tutto per recuperare il quadro.
Il cast è di proporzioni faraoniche; cito a caso, ma non troppo:
-Harvey Keitel, non lo vedevo da anni. Qui ha il ruolo del vecchio galeotto ricoperto di tatuaggi. Un solo fotogramma di quest'uomo vale il biglietto, se lo pagate;
-Mathieu Amalric è simpatico, un francese che gioca con lo stereotipo del francese;
-Bill Murray è Bill Murray ed è un dovere morale amarlo. Io lo faccio dai tempi dei GhostBusters, ma Egli con gli anni migliora. Egli sta ed è sempre stato a Wes Anderson come Keith Richards sta agli Stones, per dire.
Altri attori di grido, tra cui ovviamente tutti gli habitués del cinema di Anderson sono disseminati all'interno del racconto.
Un sovraffollamento che diventa inconveniente, creando una certa complessità a livello di trama: a costo di dare un ruolo a tutti, si creano personaggi inutili, come quello di Lea Seydoux, che tra l'altro è in evidente imbarazzo nei panni di una cameriera imbranata con dei capelli di colore normale.
Per il resto niente da dire, fa piacere constatare che Wes Anderson è ancora nel pieno possesso delle sue facoltà registiche; è uno dei pochi che il loro stile lo mantengono saldamente e lo hanno imposto senza compromessi ai colossi della produzione (che sentitamente ringraziano, suppongo).
I carrelli interminabili mossi su traiettorie rigidamente geometriche ma imprevedibili, i dialoghi rapidi e stringati, le scenografie fintamente bidimensionali, le situazioni ai limiti dell'assurdo: gli elementi tipici ci sono tutti e sono esaltati alle loro massime potenzialità. Ancora una volta, tema cardine è quello della famiglia; anzi, più propriamente quello del rapporto padre - figlio, che in questo caso si declina nel rapporto Gustave-Zero.
Insomma, se un regista continua a ripetersi e, ciò nonostante, riesce a essere innovativo, significa che è un vero autore.
Uno dei migliori Anderson di sempre, soprattutto in recupero dopo Moonrise Kingdom, che non mi aveva convinto pienamente.

P.S. Il tono di questo post è volutamente altisonante nel vano tentativo di disturbare le tonitruanti grida di giubilo provenienti dal sito Repubblica.it e relative al film La grande Bellezza.

giovedì 27 febbraio 2014

Only Lovers Left Alive (Jim Jarmusch, 2013)

Attendevo con una certa fiducia il nuovo film di Jarmusch, nelle sale dal 19 ottobre, dopo la accoglienza ufficiale al Festival di Cannes dello scorso anno. Ancora vampiri? , mi dicevo, anche se in relatà non ho visto tutta la paccottiglia sul genere che ha riempito le sale negli ultimi tempi.
Insomma, lascio passare una settimana, tempo di trovare una proiezione non stracolma, e vado, senza pregiudizi.
Le prime immagini, va detto, esaltano: una sequenza vertiginosa di plongés (forse un riferimento a Vertigo?) ci porta, sulle note di un rock d'antan, da un vinile che gira sul suo piatto alle immagini dei due protagonisti, stesi sui loro divani, in preda a una certa estasti non ben identificata.
I due soggetti in questione appaiono da subito come due gaudenti viveurs, circondati dei simboli della lussuria. Il presente che essi vivono è per noi un futuro non ben precisato, in cui gli unici sopravvissuti su terra sono creature crepuscolari e mostrificate. Lui vive a Detroit ed è un musicista dall'animo post-rock decadentista, colleziona chitarre elettriche provenienti da ogni epoca e si circonda di oggetti di modernariato; lei invece vive a Tangeri, ma in compenso è tecnologicamente più aggiornata e comunica col suo i-phone con tanto di mela in bella vista.
Da un rapido dialogo telefonico tra i due, scopriamo che essi sono coniugi, e nel giro di qualche scena veniamo a sapere che sono vampiri. Si chiamano Adam e Eve (nientepopodimenoche) e la loro luuunga vita li ha portati a conoscere e influenzare migliaia di artisti in tutte le epoche; lui, compositore solitario, ha addirittura composto delle musiche che Schubert gli avrebbe sottratto senza ritegno. Lei in compenso intrattiene un rapporto di stretta amicizia con Christopher Marlowe, il quale non perde occasione per smerdare la memoria di William Shakespeare, anch'egli responsabile di plagio nei suoi confronti.
Di fronte ai propositi di suicidio del marito, Eve lo raggiunge in fretta e furia a Detroit. I due trascorreranno le loro notti tra locali notturni e lunghe peregrinazioni nella vecchia città industriale ormai allo sfascio.
Una trama piuttosto banale che si snoda su una colonna sonora tipicamente "jarmuschiana", in un rock dal ritmo cadenzato e oscuro, una sorta di lunga e continua marcia funebre.
All'interno della casa decadente di Adam e dei paesaggi notturni di Detroit, le frequenti opposizioni di caldi e freddi fanno da sfondo al pallore terreo di un Tom Hiddleton identico a Manuel Agnelli e a una Tilda Swinton dall'abituale pallore terreo.
Nonostante la pregevole fattura e nonostante il regista abbia affermato di non aver mai visto i film di vampiri degli ultimi tempi, l'impressione che resta è però quella di un Jarmusch che si appoggia un po' troppo a stilemi in voga, a partire dalla costruzione dei due personaggi, che si rifanno a canoni ultra-modaioli (l'immaginario emo avrà di che assumere dalla pellicola). La metafora di fondo è chiara: i due personaggi rappresenterebbero la faccia oscura del genere umano, il lato perverso e peccatore di ogni artista, ma i continui riferimenti ironici alle figure maggiori dell'arte e della letteratura del passato assumono alla lunga l'aria della ostentazione saccente. Due palle.
Insomma troppa estetica e, soprattutto, non succede niente per quasi due ore.


lunedì 24 febbraio 2014

Ida (Pawel Pawlikowski, 2013)

Non vedo tutto quello che passa al cinema. Sia per ragioni economiche che perchè mi piace scegliere. Di solito poi la mia selezione si basa su: 1- critiche o pareri altrui, 2-stima che nutro per il regista.
Raramente scelgo i film da vedere in base a quello che vedo nel relativo trailer.
Ebbene, questo è uno di quei rari casi.
Il pianoforte chopiniano, il bianco e nero, gli sguardi, i silenzi, le atmosfere nebbiose; insomma, alla prima occasione mi fiondo a vedere il film. Che, come è giusto, si rivela più bello del trailer.
Polonia 1962. Anna, suora novizia che si appresta a prendere i voti, si reca per qualche giorno in città a trovare la zia, bella donna ormai sfiorita, ex-giudice, fedelissima del regime filo-sovietico ormai dedita all'alcool e alla prostituzione.
La missione della ragazza, alla sua prima uscita dal convento, è quella di conoscere la storia dei propri genitori, morti durante la guerra.. Assieme alla zia compirà uno sconvolgente viaggio di formazione: scoprirà la propria vera natura, un passato atroce, e allo stesso tempo  le passioni di una vita normale.

Pawlikowski, regista dal passato documentaristico, affronta nella stessa opera due temi estremamente delicati, anche se all'apparenza molto diversi: la adolescenza, come passaggio all'età adulta, e la dolorosa storia della Polonia degli anni del Dopoguerra.
Per farlo, egli compie scelte registiche decisamente azzardate, dando vita a un ritratto dallo stile severo e rigoroso. Il film è composto nella quasi totalità da piani fissi; i movimenti di macchina sono ridotti a due scene, a inizio e fine vicenda, in cui due lunghi carrelli laterali accompagnano l'arrivo e la partenza dalla città della protagonista. Figurativamente, la messinscena fa ricorso a frequenti décadrages, lasciando i personaggi ai margini di ampie campiture pressochè vuote.
Per completare il quadro minimalista, il regista fa ricorso all'uso di un bianco e nero nitido e scintillante, un vero tocco di classe. Le atmosfere fumose dei locali jazz, le vaste distese della campagna polacca, i tristi interni domestici, tutto trasuda la stessa profonda tristezza, il senso di impotenza opprimente che la giovane protagonista vive.
In 80 minuti scarsi di film il film la vicenda chiude il suo cerchio e si esce dalla sala stupefatti.

sabato 22 febbraio 2014

Warning Sign (Hal Barwood, 1985) e Incubo sulla città contaminata (Umberto Lenzi, 1980)

Appuntamento imperdibile col Cinéma-Bis alla Cinématheque: tema della serata gli zombies. Attendo l'appuntamento come una manna dopo una settimana di Neorealismo.
Il motivo della contaminazione, centrale in tutti i film di questo genere, gode di una tradizione illustre che nasce nell'Ottocento: la mostrificazione (che traforma in vampiri o morti viventi) come metafora delle grandi epidemie di sifilide conseguenti al forte inurbamento.
Al cinema il tema ha fornito il tema per una lunga trafila di opere alcune di ottima qualità; su tutte impossibile dimenticare La notte dei morti viventi, capostipite della serie diretto da Romero, e Zombi 2, capolavoro insuperato di Lucio Fulci.
Una intro molto dotta per due film registicamente piuttosto nulli, ma ad alto tasso di divertimento.
Il primo racconta la storia di un gruppo di scienzati di un laboratorio chimico che resta intrappolato nel proprio laboratorio in seguito alla rottura di una fialetta. La contaminazione costringe la responsabile della sicurezza a sbarrare le porte d'uscita e lentamente i presenti iniziano a zombificarsi e a dare la caccia ai pochi non contaminati. Lo sceriffo del paesino e un ex-scienziato del laboratorio stesso entreranno per salvare i superstiti trovando alcuni ritagli di tempo per mettere a punto un antidoto alla contaminazione e per diagnosticare una gravidanza alla addetta alla sicurezza.
Il film è del 1985, esattamente come The toxic avenger, e potrebbe benissimo uscire dalla Troma di Lloyd Kaufman: una sceneggiatura prevedibile per una regia piuttosto banale e una recitazione irrigidita (per usare un trio di eufemismi piuttosto forzati). Persino l'aspetto su cui solitamente tali film basano il loro successo, gli effetti speciali, sono qui praticamente assenti e si limitano all'uso di un tubo al neon "wood" per riconoscere la contaminazione sul viso delle vittime. Patetico.
Una cosa certa è che Hal Barwood, poco dotato compagno di Steven Spielberg al College, deve aver visto più volte Shining e non si fa scrupolo di nasconderlo, visto che ogni dieci minuti si sente in dovere di dotare di ascie gli scienziati zombizzati per far loro sfasciare delle porte. Citazioni gratuite che, se possibile, rendono il prodotto ancor più imbarazzante.
Vagamente migliore, anche se non saprei dire perché, il secondo film. Forse perchè diretto da un regista che stimo come Umberto Lenzi, che, seppur cineasta "a tanto al chilo", ha saputo regalarci perle come "Il trucido e lo sbirro"  o "Milano odia", che comunque restano capisaldi.
In questo caso credo ci sia un problema di budget, o di sceneggiatura, o di attori, o forse di tutto, perché il film non decolla quasi mai. Al contrario inizia -bellissima l'idea iniziale- con un atterraggio: un velivolo militare non annunciato arriva nell'aeroporto della città X; ne esce una nutrita banda di zombi inferociti che, incuranti delle pallottole, fanno piazza pulita dei soldati giunti ad accoglierli.
Un cronista televisivo giunto per caso nelle vicinanze assiste alla scena e torna nei suoi studi per diffondere la notizia. Ma i vertici militari sono rigidi: non bisogna turbare il popolo, la notizia rimarrà sotto segreto.
Ma ecco che all'improvviso gli zombies fanno irruzione nel bel mezzo del balletto di un gruppo di showgirls, sgozzandone una buona dozzina. Da quel momento, l'orda dilaga. Il cronista e la sua consorte intraprenderanno una fuga disperata che troverà il suo epilogo nel suggestivo scenario di un Luna Park.
Questo secondo film se non altro ha dalla sua un uso di effetti speciali di stampo gore piuttosto ben fatti, che trovano il loro culmine nelle scene finali, in cui le teste degli zombies vengono fatte esplodere come cocomeri.
Per il resto è tutta una pletora di "mezzucci" solleticanti: solo in questo senso può spiegarsi il fatto che qualsiasi mostro, prima di sgozzare la propria vittima femminile, si senta in dovere di strapparle camicetta e reggiseno al cospetto della macchina da presa...
Il film è ad ogni modo genericamente ricordato per una trasgressione alla tradizione filologica relativa ai "morti viventi" : gli zombies del film non arrancano ciondolanti come al solito, ma al contario corrono, saltano e usano attrezzi come le persone normali. L'unico elemento che li distingue da questi ultimi è la crosta tipo "pizza andata a male" che ricopre larghe porzioni dei loro volti.
Considerazione amara di rito: il pubblico in sala ha passato i 202 minuti di proiezione dei due film a ridere sguaiatamente delle evidenti goffaggini che caratterizzavano i film stessi.
Ma io mi dico: se vai a vedere un film così, o accetti di scendere al suo livello e ti diverti, oppure scegli un altro film!
Se devi per forza ergerti a giudice dell'estetica, stai perdendo il tuo tempo e sei un coglione, ed è meglio se rincasi a vedere Godard su DVD.



martedì 18 febbraio 2014

12 Years a Slave (Steve McQueen, 2013)

La vera ragione per cui passo buona parte del mio tempo in Francia consiste nel fatto che i film tosti (e anche gli altri) qui escono per lo meno con due mesi di anticipo rispetto all'Italia. Questo mi permette di impartire giudizi farneticanti su molte opere senza che i miei compatrioti abbiano modo di verificarne la legittimità.
In questo caso arrivo entro in scivolata all'ultimo minuto per parlare del terzo e ultimo film di Steve Mc Queen, che per chi non lo conoscesse non ha a che fare con film di automobili se non per questioni di omonimia. In realtà la precisazione è quasi superflua, visto che il regista (ex video-artista) inglese ha già fatto parlare di sè piuttosto lungamente con Shame, in cui Fassbender interpretava un'uomo ossessionato dal sesso in una New York triste e oscura. Il successo del film aveva portato al rilancio (almeno in Italia, dove dormiamo della grossa) del film precedente, Hunger, bellissimo e durissimo film basato sulla storia di Bobby Sands.
Torna in grande stile McQueen, dopo una campagna pubblicitaria massiccia, (con le 9 nominations agli Oscar che non guastano) e lo fa con un soggetto tratto da una storia vera (il romanzo-diario di Solomon Northup) e che punta di nuovo fortemente sul politico. Solomon Northup è uno dei tanti  free negros che nella metà del diciannovesimo secolo vivono nello stato di New York.Ha moglie e figli e conduce una agiata vita piccolo borghese. Il bonaccione un brutto giorno viene adescato da due "cacciatori" senza scrupoli i quali, dopo averlo ubriacato a dovere, lo vendono a uno schiavista degli stati del Sud. Inizia così la lunga serie di peripezie del malcapitato, che finirà a lavorare per un sadico-mistico molto ben interpretato dall'ormai affezionato Michael Fassbender. Dodici anni di esperienze terribili segneranno la vita dell'uomo senza piegarne la dignità.
Il cinema di McQueen torna a parlare della nostra anima mettendo in scena la nostra essenza più concreta, vale a dire la nostra carne. Come nelle due precedenti esperienze, la macchina da presa indugia sui corpi dei protagonisti, ci fa assistere senza pudore alle loro esperienze più dolorose. Lo fa attraverso piani sequenza che, rifuggendo qualsiasi virtuosismo fine a se stesso, risultano a volte difficili da sostenere: vedi a questo proposito la scena del tentativo di impiccagione di Solomon, da brividi.
La natura contemplativa dello sguardo di SMQ si rivolge però anche altrove: alla natura lussureggiante e inquietante dell'Alabama soprattutto e ai capi di cotone punteggiati di schiavi e percorsi da bellissimi spirituals intonati dagli stessi. Bellissimi poi gli interni, raffinatissimo e curatissimo l'uso delle luci, che può ricordare a volte il Kubrick di Barry Lindon
Tutto questo bel pacchetto vorrebbe portare al suo interno un messaggio politico e antirazzista incisivo, ma in fin dei conti l'impressione finale è quella di tornare a canoni hollywoodiano-liberals piuttosto standard, anche in termini di contenuto.
"I don't want to survive. I want to live" proclama eroicamente il protagonsta all'inizio del film; in fin dei conti però, assistiamo alla storia di un uomo che cerca di sopravvivere, non alla storia di un uomo che lotta. Per salvare la pellaccia il nostro accetta qualsiasi soverchieria e si barcamena nel suo dolore senza che esso si trasformi in rabbia o reazione, sebbene egli abbia già conosciuto la libertà.
Tutto ciò è lecito, ma allora non si spacci il film per un "film politico", altrimenti il film rientra in fenomeni vuoti di significato reale come il film The Butler o l'elezione di Obama a Presidente degli Stati Uniti.
Imbarazzante -non posso non dirlo- il fatto che l'uomo della svolta sia Brad Pitt, che guarda caso ha prodotto il film, e che rappresenta perfettamente l'ala gauche-caviar di Hollywood.

Bellissimi infine gli effetti sonori astrospaziali e le urla in giapponese fuori campo: un vero valore aggiunto al film, fruibile in qualsiasi multisala di merda in cui proiettano a due metri da te l'ultima vaccata di Miyazaki.

martedì 11 febbraio 2014

Niagara (Henry Hathaway, 1953)

Continua alla Cinématheque di Bercy la infinita retrospettiva su Hathaway, regista poliedrico e di conseuenza piuttosto prolifico. Numerosi i film del regista passati tra la sala Langlois e la Franju, incredibilmente oscillanti tra il capolavoroso (Peter Ibbetson e Raw Hide la stessa sera, entusiasmanti) e il patetico, nel senso di inguardabile (The last safari, indegno, gran dormita).
Ieri sera, anche se il lunedì solitamente non offre grandi cose, passano Niagara e io pacco una cena per vederlo per la seconda volta, ma su grande schermo.
I coniugi Cutler (due pupazzi di gomma) giungono in un villaggio vacanze nei pressi delle cascate del Niagara per passarvi alcuni giorni di noia mortale. Ma il bungalow loro riservato è occupato da un'altra coppia, i coniugi Loomis, un Joseph Cotten pallido e smunto e una Marylin Monroe la cui bocca, grazie al Technicolor piuttosto saturo, sembra uscire dallo schermo, per la gioia degli astanti. Ebbene, le due coppie in questione sono ai poli opposti: se la prima è "Mulino Bianco", la seconda è più normale: lei ha un amante, lui sta malissimo e passa e sue giornate sulle rocce delle cascate interrogandosi sulla potenza della natura e sull'impotenza dell'uomo al suo cospetto.
Mentre i coniugi Cutler fanno di tutto per farsi derubare dal florido settore turistico locale, i Loomis si dedicano a attività più parsimoniose, come copulare, litigare, ferirsi, progettare le rispettive morti.
Sarà proprio la signora Loomis a dare il via al suo piano di assassinio del marito, che farà mettere i pratica dal suo sprovveduto amante.
Il tema del rapporto uomo-natura è al centro di tutta l'opera di Hathaway: boschi, laghi, mare, montagne, praticamente ha ambientato i suoi film in ogni tipo di paesaggio, e sono pochi i suoi film di ambientazione prettamente urbana.
In questo caso direi che raggiungiamo il limite. Le cascate sono praticamente le protagoniste del racconto e si cerca in tutti i modi di far passare la visione metaforica secondo la quale la loro potenza inarrestabile sarebbe il corrispettivo delle trascinanti passioni che travolgono i personaggi.
In tutta franchezza questo obiettivo sembra raggiunto a metà, nel senso che la vera passione tra i personaggi non arriva mai a livelli stratosferici, e le cascate diventano il più delle volte una suggestiva scenografia.
Il cast poi non aiuta: il solo Cotten spicca grazie ad una vera interpretazione del personaggio travagliato dalla coscienza della infedeltà della moglie. In seconda posizione, da salvare è Jean Peters, mentre la Monroe è evidentemente in difficoltà in un ruolo da dark lady che infatti non ricoprirà mai più. A dir poco macchiettistico il personaggio di Cutler, un tonto dallo sguardo inebetito alla Formigoni.
Genericamente mal reputato dalla critica, il film non è però tutto da buttare. Su tutte, bellissima la scena dell'assassino di....(niente spoiler, qui), in cui la scenografia da cinema espressionista tedesco esalta estremizzandole tutte le migliori caratteristiche visive del noir classico anni '50.
Pubblico in visibilio, applausi al cinema, che fa tanto cinéphile.

giovedì 6 febbraio 2014

True Grit (Henry Hathaway, 1969)

Henry Hathaway è Hollywood. Nel senso che pochi registi incarnano meglio lo spirito nazionalistico-spettacolare del cinema statunitense. Durante la sua lunga carriera Hathaway ha diretto di tutto: noirs, film di guerra, documentari, commedie, film drammatici, ma soprattutto tanti tanti western, soprattutto negli anni '60.
E' proprio alla fine del decennio che gira True Grit, quando ormai il genere, inteso in senso holywoodiano tradizionale appunto, è sul viale del tramonto. Sergio Leone e Sam Peckinpah sono su piazza già da alcuni anni, e il genere sta andando altrove.
Quello cui dà vita in questo caso Hathaway è un western dall'impianto base del tutto tradizionale, e che attore scegli se devi metter su un western TRADIZIONALE? Esatto. Bisogna ammettere che il nostro John è ormai un catorcio : acciaccato, sovrappeso, visibilmente affaticato. D'altronde a sesantadue anni mica puoi saltare staccionate come un ragazzino, quindi i fotomontaggi in cui compie evoluzioni esagerate a cavallo hanno del ridicolo.
Ma hoplà! cosa fa il regista rendendosi conto di ciò? L'unica cosa sensata (e a mio avviso geniale) è far recitare a John Wayne esattamente ciò che è: il catorcio-alcolizzato-sovrappeso-sul-viale-del-tramonto. Il risultato è magnifico. Un grande. Non a caso l'unico Oscar della sua infinita carriera d'attore.
La ragazzina Mattie Ross cerca giustizia per il padre, caduto vittima del suo aiutante ubriacone che lo ha lasciato con un palla in corpo squagliandosela col suo cavallo e due monete d'oro. Per perseguire il suo scopo, ingaggia  Rooster Cogburn, un cacciatore di taglie ormai vecchio e disilluso, il cui unico scopo è rimediare la grana per pagarsi da bere. Il beone è sul punto di partire per rimediare i suoi 100 dollari, quand'ecco che arriva La Beef, un texas ranger (più bello di Chuck Norris ma meno ficoso) alla ricerca anch'egli dell'assassino in questione. I due partiranno alla ricerca raggiunti molto presto da Mattie, che pretenderà di sparare lei stessa all'assassino del padre con la enorme pistola appartenuta a quest'ultimo.
Come dicevo, il personaggio di Wayne è ben giocato, e non fa rimpiangere i vecchi film di John Ford. Anzi, la figura dell'anti-eroe è perfetta per permettere al western di prendersi in giro e constatare oramai il defiitivo superamento dell'idea di eroe senza macchia e senza paura. Tra le parti più divertenti del film sono proprio le sonore sbronze che il buon Cogburn si prende, durante le quali si diverte a stuzzicare il pecoraro texano sottoponendolo a un'infinità di epitieti, tra cui il più buono è Texican.
Spiace constatare che il personaggiodi Wayne batte in partenza quello interpretato da Jeff Bridges nel remake del 2010 diretto dai fratelli Coen. Insomma, lodevole l'idea di riproporre classici dimenticati, ma in quel caso non ci siamo proprio.

mercoledì 5 febbraio 2014

San Babila, ore venti. Un delitto inutile (Carlo Lizzani, 1976)

Seconda volta a parlare di un film di Lizzani. ma lungi da me l'intento necrologico.
La Cinemathèque passa questa rarità del cinema italiano che per lungo tempo ho desiderato vedere e non me la posso lasciar scappare.
E' che il cosiddetto cinema politico anni '70 mi ha da sempre affascinato: braghe a zampa e P38, brillantina, baffi neri e Alfa Giulie, insomma quell'immaginario lì. Tutto bello e stiloso a vederlo da qui. Il problema,(e un po' la colpa) di questo tipo di cinema (motivo per cui era odiato dalla quasi totalità dei movimenti) è il fatto di spettacolarizzare la politica senza intaccare, denunciare, o per lo meno approfondire un attimo il contesto sociale. Le dovute eccezioni vanno fatte: Petri in particolare.
In questo caso Lizzani parte da un fatto di cronaca della Milano di quegli anni e l'intento di stampo nerorealista è denunciato da subito nel titolo di stampo giornalistico. Il riferimento fin troppo evidente è al bellissimo Roma ore 11 girato nel 1951 da De Santis su sceneggiatura di Zavattini.
Nobili intenti insomma per il nostro Lizzani, che da sempre interessato al sordido del nostro sventurato paese questa volta decide di parlare dei fascistelli figli della borghesia meneghina.
Il film si snoda lungo una intera giornata al seguito di un gruppetto di "sanbabilini" appunto, e li accompagna nel loro delirio fatto di risse, tentativi di attentati, contatti con servizi segreti, insomma tutto il repertorio della vulgata. Alle 20 toccheranno il fondo della loro folle spirale commettendo l'irreparabile.
Le ambientazioni sono simili a quelle della Milano grigiastra che Lizzani aveva già rappresentato in Banditi a Milano (1967). Il problema è che all'epoca c'era Volonté nei panni di Cavallero a tenere in piedi tutto il film con una delle sue interpretazioni migliori. Ora invece Lizzani, per rifarsi alla dimessa poetica neorealista opta per un casting sottotono senza attori conosciuti e il risultato si vede: la recitazione dei quatto fascistelli è quanto meno ingessata, oppure a volte mal controllata.
Per quanto riguarda la sceneggiatura, cui ha partecipato inspiegabilmente Ugo Pirro, ne emergono personaggi che definire stereotipati è riduttivo. Si passa dall'eminenza grigia tipo "servizio segreto" con baffo nero e impermeabile, alla femminista con sciarpa rossa che dà dell'impotente ai fasci, passando per il sindacalista che si esprime esclusivamente attraverso massime di Lenin.
Infine c'è tutta la trafila di idee di stampo reichiano che evidentemente il buon Pirro ha preso a piene mani dai suoi trascorsi alla macchina da scrivere al fianco del buon Petri: ne emerge la logica piuttosto bislacca, o comunque non sufficente, secondo la quale i fascisti non sono altro che dei repressi frustrati sessualmente, troppo attaccati alla madre o in lotta col padre-padrone (Edipo 'ncora?)
Patetica infine la lunga presentazione della vittima, bravo ragazzo futuro padre di famiglia, sindacalista dalle grandi speranze, pecora designata per il branco di lupi.
Insomma siamo ad anni luce dal già citato Banditi a Milano, film che aveva dato il via alla stagione del poliziottesco italiano, in cui si spettacolizzava il crimine su schemi da cinema americano e francamente ci si divertiva. Qui l'intento moralizzatore la fa da padrone ed è una barba da subito e fino alla fine.


giovedì 30 gennaio 2014

4:44 Last Day on Earth (Abel Ferrara, 2012)

L'ultima opera di Abel Ferrara questa sera al cinéblub di Jean Douchet, il quale dopo il film ha commentato lungamente dandomi modo di pavoneggiarmi ora sul blog mutuandone più o meno tutte le idee.
Sull'onda della baggianata del 21 dicembre 2012 diversi sono stati i film che hanno parlato del frivolo argomento della Apocalisse. In primo luogo il leggerissimo Melancholia del sempre sereno Lars Von Trier.
Questo di Ferrara è il secondo degno di interesse e come risultato surclassa di gran lunga, nella metà del tempo, il mattone del cineasta danese.
New York, un Willem Dafoe sempre all'altezza incarna Cisco, artistoide semi-tossico-fricchettone che divide la vita e un attico con Skye, una pittrice molto più giovane di lui.
I due passano alcune ore in casa, fanno l'amore, comunicano con parenti vari su Skype, mangiano cinese, litigano, si separano,ma poi le cose si sistemano... tutto ciò fino alle 4:44.
Che cosa fa di una storia così banale un film che ti tiene incollato alla poltrona? Il semplice fatto che alle 4:44 è programmata la Fine di Mondo, come direbbe il Dottor Strangelove, e insomma due cosette da regolare con se stesso e tutto il resto uno si sente di averle.
La situazione estrema offre l'occasione al cineasta italo-americano per condurre una riflessione su ciò che ci resta, nel mondo attuale, dei rapporti tra noi umani ma soprattutto del rapporto che ci lega alla realtà circostante. La maggior parte dei rapporti del protagonista col mondo circostante infatti, si giocano attraverso immagini bidimensionali: da un lato il televisore perennemente acceso al centro della stanza non smette di mandare i "Ve l'avevamo detto" dei vari Dalai Lama, Mandela, Al Gore, dall'altro Skype diventa l'interfaccia asettica attraverso la quale dire addio per sempre alla sua ex.moglie, alla figlia, agli amici più cari. Di conseguenza l'impressione che se ne trae è quella di una Fine del mondo come conseguenza inevitabile dello sfilacciarsi e dell'allentarsi dei rapporti umani.
Tutto è ridotto a immagine, persino le persone più care; come le immagini essi sono transitorie, vacue, destinate a morte certa.
Contraltare e figurazione a tale perdita dell'immagine sono le grandi opere astratte che Skye compone sul pavimento della casa; stesi nel mezzo di una di queste opere i due aspetteranno l'ora cruciale.
Insomma via, tutta allegria. Film complessissimo.
Non credo in Italia sia circolato, se non a qualche Festival tipo Torino.




venerdì 24 gennaio 2014

"Cyclone" e "Il triàngulo diabòlico de Las Bermudas" (René Cardona jr, 1978)

Esiste un solo modo per essere più snob degli intellettuali snob: eccedere nella direzione opposta e sprofondare nel pop più imbarazzante e pecoreccio. E' esattamente quello che si ha la possibilità di fare ogni venerdì sera alla Cinémathèque di Bercy. Il venerdì sera è infatti da anni dedicato alla rassegna Cinéma-bis, nella cui occasione intere frotte di parigini si avventano sul meglio dei peggiori film della storia del cinema.
Bisogna ammettere che le scelte sono sempre apprezzabili e i film davvero divertenti, tanto che sono gli unici a cui ti può capitare di trovare il direttore della sudetta cineteca. In pratica, visto che Pasolini doppiato in cambogiano l'han già visto tutto e si son rotti i maroni, vanno a vedersi Gloria Guida in costume, che rispetto a Franco Citti, permetterai...
L'accoppiata di film di stasera è da antologia: trattasi di due film del 1978 del regista messicano René Cardona jr, figlio di René Cardona -importantissimo regista mesicano, mi dicono- e padre di (vedi la fantasia) René Cardona III, cineasta contemporaneo.
Nella sua pur breve carriera, il nostro ha dato alla luce una buona dozzina di pellicole, pressochè tutte orientate a scopi alimentar-goderecci. In altri termini, metteva insieme una storia che funziona, il materiale necessario, un buon cast, e confezionava lì per lì un film di dubbio valore estetico, ma di alto valore spettacolare.Ed effettivamente sapeva il fatto suo, perchè i due film in questione - va detto - funzionano.
Il primo racconta la storia di un naufragio: in seguito a una furiosa tempesta caraibica, un aereo, una piccola imbarcazione da turismo e un peschereccio vanno a finire piuttosto male, e i rispettivi equipaggi si trovano tutti assieme appassionatamente alla deriva su un piccolo natante. L'occasione è di quelle perfette per mettere in scena le dinamiche umane che si innescano in una situazione di isolamento disperato sull'orlo della morte.Sulla scia di Stagecoach, lo schema è di quelli usurati, ma funziona sempre: 1-perché è facile per lo spettatore seguire l'evolvere della storia; ci si affeziona ai personaggi e si segue le loro trasformazioni, 2-perché è una facile metafora della vita sociale: il microcosmo di una nave isolata in mare aperto come il macrocosmo del nostro sventurato pianeta in cui, bene o male, ci troviamo a convivere con pezzi di merda di varia natura. In questo caso il tentativo di tratteggiare psicologicamente i personaggi esiste, e in certi casi va a buon fine, anche se alla fin fine si punta più sulla spettacolarità ironica di certe scene piuttosto macabre (ben riuscita quella dello squartamento del cane). D'altra parte di tratta di film exploitation e la gente (me compreso) se ne fotte della psicologia dei personaggi, vuole vedere il cane squartato e rosolato sulla prua della nave, per farsi una sonora risata alla faccia della padrona snob che voleva salvargli la vita. Oltrettutto (così si accontentano anche gli intellettuali in sala) rimane anche spazio per inserire l'immancabile sermone del prete sulla opportunità della pratica del cannibalismo. Ad ogni modo niente paura: il prelato verrà zittito bruscamente per lasciar spazio a grigliate di chiappe di tal Manolo.
Per quanto riguarda il secondo film. Dirò che la più importante considerazione la merita il cast: un rimbambito John Huston nella parte di un capofamiglia che non si capisce come ha una figlia di 8 anni, visto che lui ne avrà 80, mah, Marina Vlady, attrice sfuggente ma molto attiva tra Italia e Francia in quegli anni, e, come detto sopra, una statuaria Gloria Guida, che da sè vale tutto il film. Perché per il resto la pellicola non è all'altezza della prima, oltre a essere una sorta di ripetizione. La storia prende spunto, avvalorandola, dalla fesseria del cosiddetto Triangolo delle Bermude. Una nave di proprietà del riccastro patriarca interpretato da Huston piomba in pieno Triangolo, dove gliene capiteranno di tutti i colori.
Merito del film, rispetto al primo, è se non altro la varietà delle sfumature che il regista riesce a conferirgli: ad un impianto di sceneggiatura da puro film d'avventura, si innestano registri da vero e proprio film horror, con tanto di uso banalotto del teremin, che nemmeno con Bela Lugosi lo usavano più.
Per quanto riguarda entrambi i film, c'è da dire che il buon Cardona ha visto e rivisto Lo Squalo 3 anni prima, e lo cita e ricita complusivamente qualche migliaio di volte, con tanto di colonna sonora scandalosamente simile.

Sempre a proposito di colonna sonora, Cyclone è musicato da Riz Ortolani, morto ieri a 87 anni. Al comparire del suo nome sui titoli di coda siam partiti a applaudire in tre in tutta la sala. Vabbè.

mercoledì 22 gennaio 2014

La giusta distanza

Ero a cena qualche ora fa coi colleghi. In realtà non sono colleghi. E' gente che per due giorni mi ha detto cosa trasportare e dove trasportarla in una fiera di cose inutili. Gente che mi paga e che io devo servire, perchè se vuoi studiare senza borsa di studi...
Si mangiava in un ristorante indiano a Place d'Italie, bippa il cellulare, "é morto mazzacurati".
Lo leggo ad alta voce, meccanicamente, di fronte al cameriere mentre ordino il paneer. Questi mi osserva stranito, riformulo l'ordinazione e se ne va. Ripeto la notizia al ragazzo che mi sta di fronte, che mi risponde: "Ah, Pino Mazzacurati?". "No" dico "Carlo",  pronunciandolo come fosse il nome di un amico.

Di Mazzacurati mi piace tanto La giusta distanza. Uno dei migliori film italiani degli ultimi anni: mi piace Battiston che fa il provolone con la maestra e il paesaggio veneto che lo riconosci subito.
Un po' meno Il prete bello ma è vero che c'è Vicenza. Però ricordo che una volta ho letto una intervista in cui Mazzacurati diceva che secondo lui Vicenza è come Padova, ma cinquant'anni prima. Ero d'accordo.
La Passione mi ha fatto ridere: mi piace la trovata del terrazzino per chiamare col cellulare e mi piace Battiston che fa l'attore sperimentale, ma Guzzanti non ci stava tanto.
Il Toro è magnifico: mi piace Abbatantuono ma anche Citran, la nebbia e i paesaggi dell'est europa e il tipo col motorino.
La lingua del santo fa ridere, ma anche un po' piangere. Con Bentivoglio che c'ha dentro una tristezza atroce: mi piace la scena della fungaia coi ragazzi neri e quelle sulla laguna.
Non mi piace sapere che non farà più film.



lunedì 20 gennaio 2014

Dogville (Lars Von Trier, 2003)

La Cinémathèque ha messo in piedi, per questi mesi invernali, un ciclo dal titolo di Panoptismes. Il tema cardine della serie è quello dello sguardo, della smania si vedere che avvolge questo mondo come una malattia. Essa si traduce nelle inumerevoli immagini che passano attraverso i media di massa come Internet o a TV, ma si traduce anche, come aveva compreso Foucault, in spietato mezzo di controllo sulle masse. Lo sguardo del potere è sguardo di controllo e oppressione.
Domenica pomeriggio piuttosto down, mi esalto non poco a sapere della proiezione di Dogville. Parto per passeggiatina-ripiglio al Parco Monceau, dove il più della fatica è schivare le masse di parigini altolocati vestiti da sub che fan jogging tra bambini in età prescolare. Senza indugio riprendo la metro e mi rifugio alla Cinémathèque come un cane mugolante nella sua cuccia (il paragone non è a cazzo). I soliti vegliardi, cinéphiles dagli anni'50, riempiono la sala con l'aiuto di una schiera non indifferente di hipster e bobo giunti appositamente per ostentare i baffi nuovi a Nicole Kidman.
Il film l'ho visto più volte, ma su un frustrante schermo di computer, quindi l'occasione è da non perdere, mi dico.
Ammetto che l'inizio non è dei più facili. Devo essere davvero stanco, perchè i primi 15 minuti di film li passo in dormiveglia. Ciò nonostante il film mi ripiglia per i capelli e mi strappa a Morfeo alla fine del primo dei nove capitoli.
Dogville è il nome di una cittadina inesistente (quindi qualunque cittadina statunitense) che mena la sua ripetitiva vita nella miseria più nera degli anni '30. In essa fa la sua improvvisa comparsa Grace, splendida ragazza inseguita da gangsters senza scrupoli, che viene accolta per carità cristiana dal giovane moralizzatore Thomas Edison Jr. Quest'ultimo riesce a fare accettare ai suoi bifolchi e impolverati concittadini la presenza della dolce e sensibile ragazza, che per sdebitarsi si dedica ai mille lavoretti marginali di cui gli abitanti del villaggio non vogliono più occuparsi: mi sembra di sentir la retorica del Pd sui  migranti.
Col passare del tempo infatti, la situazione cambia, e quella che era una convivenza tollerata e ipocrita fa spazio a una situazione di sfruttamento spietato mascherato da amore.
Persino Tom, il paladino del volemose bene, rivelerà tutta il suo egoismo interessato.
Il finale è di quelli che stupiscono.
Che c'entra tutto ciò coi panoptismes? C'entra, perchè la scena è un palco completamente nero, sui cui case e strade sono tracciate di bianco sul pavimento come se fosse una lavagna. Nessuna parete a delimitare le case, pochissimi gli elementi architettonici, e tutti simbolici, come la campana, sospesa nel vuoto e la vetrina dell'emporio.
Su di esso i personaggi si muovono come nel mondo reale, in un universo diegetico coerente e ben giocato anche a livello sonoro (i passi sulla ghiaia in strada, quelli sul tavolato nelle case,...).
Von Trier rimuove qualsiasi ostacolo visivo e metaforizza in modo piuttosto evidenti il ruolo di un regista europeo di fronte alla società americana: mettere a nudo le storture e le mostruosità di cui la terra dell'american dream è stata sin troppo spesso la culla.
In questa umanità melmosa e spietata Grace (una grazia ben lontana da quella che possiamo supporre) scende come un angelo vendicatore, un Cristo spietato che farà piazza pulita di ogni peccato in modo tutt'altro che compassionevole.
Se a livello registico Von Trier è ancora all'interno degli schemi del Dogma 95 (la camera è utilizzata prevalentemente a mano),compaiono spesso piani in posizione plongée e l'uso delle musiche extradiegetiche è piuttosto insistito e usato in chiave drammatica.
Insomma, un Dogma da vendere.
Il finale è esaltante, soprattutto i titoli di coda.
Esco dal cinema che sono uno straccio e rincaso.

martedì 14 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013)

Tornato in Francia, approfitto per fare il figo e andare a vedere Il lupo di Wall Street prima che esca in Italia e pavoneggiarmi sul blog. Il cinema Méliès di Montreuil (lunga, lunga vita!, che sono in scazzo con il comune) lo passa per l'ultimo giorno e la sala è quasi colma.
Torna Scorsese, e l'appuntamento è di quelli da non perdere. Accanto a lui, o meglio di fronte, manco a dirlo c'è Di Caprio.
Jordan Belfort è il re di Wall Street, uno che venderebbe - come si dice -  ghiaccio agli eschimesi. E' il leader di un ufficio di squali suoi pari che alle sue parole s entusiasmano che manco dei sedicenni di fronte a Justin Bieber.
Il nostro però viene dalla gavetta; ha iniziato che era una "sotto-merda", stava per perdere anche la casa, ma ad un certo putno si è rialzato, ha messo i dentini e in pochi anni ha venduto fumo a mezzo continente, arrivando a mettere su un impero finanziario enorme.
Come immaginabile, il tipo vive un vita vagamente sfrenata, nel senso che consuma compulsivamente qualsiasi tipo di sostanza crei euforia. Per non parlare delle sue frequentazioni sessuali estreme e al limite del perverso. Insomma, un personaggio che più scorsesiano non poteva essere.
Partire dal nulla, soffrire, salire gradualmente la scala della gloria e godersela come se nn ci fosse un domani. E poi....
L'impressione è quella di assistere alla biografia del nipote del Ray Liotta di Goodfellas, oppure a quella di un parente stretto di Jake La Motta in Raging Bull. La fine del film è un omaggio dichiarato al capolavoro di cui sopra.
I soliti virtuosismi di Scorsese, ben supportati da una buona dose di digitale, dipingono questo affresco barocco ma quanto mai attuale sul potere del denaro come droga. E della droga come droga, visto che nel film ne scorre a fiumi.
Se la storia da' tutto sommato l'impressione di essere già stata vista, l'ottica interessante che Scorsese vi applica stavolta è tutta giocata sul motivo del grottesco.
Belfort e soci, a conti fatti, non sono altro che dei buffoni da circo, che ogni giorno scendono in pista per giocare il loro numero allucinato. Epica in questo senso (e di per sè vale il biglietto) la scena in cui Di Caprio si pippa un tubetto intero di cocaina con in sottofondo il jingle di Popeye che si spara un barattolo di spinaci.
Insomma si ride più del previsto.
E Scorsese, tra quelli della sua età ti spacca ancora il culo, per dirla alla francese.
Vedevatelo.

lunedì 13 gennaio 2014

Il capitale umano (Paolo Virzì, 2014)

"Avete scommesso dulla rovina di questo Paese, e avete vinto". Ora lasciateci per lo meno incazzare.
E invece no.Perchè Il capitale umano è stato attaccato duramente da un poveraccio, un assessorucolo brianzolo allo sport e turismo (turismo in Brianza?) che ha accusato Virzì di restituire stereotipi legati alla splendida terra di cui lui è illuminato amministratore.
Il regista toscano aveva parlato di «paesaggio gelido, ostile e minaccioso», di «grumi di villette pretenziose», di «ville sontuose dai cancelli invalicalibili».
Insomma, c'erano tutti i presupposti buoni per interessarsi al film, e alla vigilia della ripartenza per l'Oltralpe vado a vederlo approfittando di alcuni blglietti omaggio.
Profonda Brianza, si diceva. Paesino del tipo Vergate sul Membro. Un cameriere precario rientra dal lavoro in piena notte in bicicletta nel bel mezzo di una strada di campagna. Uno dei suv-normali che sfrecciano sulle loro astronavi lo sperona e il malcapitato rovina in un fossato. Chi è il responsabile di questo crimine? L'incidente diventa l'input per costruire una sorta di noir nel quale la ricerca dello sconsiderato conducente è solo una copertura per indagare l'anima malata del Nord Italia benestante.
Una storia raccontata per tre volte, alla Rashomon di Kurosawa (vabeh, il paragone è alla cazzo ok?). Le varie facce di questo poliedro sono allo stesso modo malate: c'è l'immobiliarista sognatore e un po' fesso (bravissimo come sempre Bentivoglio), c'è l'uomo d'affari senza scrupoli con villa imperiale (un buon Gifuni dal pesante accento lombardo), e ci sono le mogli che subiscono la stronzaggine dei mariti (la Bruni Tedeschi è perfetta come moglie esaurita).
Alla fine (tranquilli, niente spoiler), come succede spesso nei film di Virzì, gli unici a spuntarla (almeno moralmente) sono bone o male i figli.
A conti fatti, l'aspetto più interessante è l'affresco collettivo di una società di mostri, gente senza scrupoli che si rinchiude in mondi fatati farciti di orrore e omertà. O gente che si sfascia la vita per dieci minuti di gloria economica.
Sorrentino riceve il Golden Globe e, col suo inglese tirato via, dice che l'Italia è un country crazy and beautiful. Una cartolina eufemistica, insomma.
Virzì dice che siamo un paese di stronzi. E c'ha pure ragione.

Nota a margine: ma nelle multisala, l'odore dei pop-corn lo sparano artificialmente? Prossima volta glielo chiedo, perchè non si vive proprio eh.

giovedì 9 gennaio 2014

Spaghetti Story (Ciro De Caro, 2013)

Vacanze natalizie prolugate a Vicenza. Percepisco su facebook un certo vociare su questo piccolo film, vedo che l'Araceli decide coraggiosamente di darlo, convinco faticosamente Ronni e via, si va a vederlo.
Sala poco affollata. evidentemente la gente non si fida.
Il film racconta la storia di Valerio, un ventinovenne aspirante (sedicente, più che altro) attore che vivacchia in un quartiere popolare romano scroccando da vivere alla malcapitata convivente e alla sorella fricchettona massaggiatrice shiatzu invasata con la cucina cinese.
Economicamente all'orlo del collasso, il nostro si lascia intortare dall'amico d'infanzia - diventato nel frattempo pusher -  prestandogli qualche servizietto in qualità di corriere. Presso il fornitore dell'amico spaccino conoscerà una sexworker cinese segregata e sfruttata da uno stronzo, e deciderà di aiutarla.
Nel frattempo la sua ragazza rimarrà incinta....
La storia è semplice, mezzi tecnici scarsissimi (poche migliaia di euro e una D50 con una lente sola), attori bravi anche se non certo rodatissimi; eppure il film funziona. Bello e coinvolgente, anche nei dialoghi.
I personaggi sono assolutamente verosimili, e le venature di comicità emergono elegantemente qua e là nella tessitura della vicenda. Er romanesco de bborgata è spesso incomprensibile, ma chissene, finché la storia sta in piedi e il film vola via con leggerezza (ma non frivolezza)..
Sarà che da quando ho visto quel gran gioiellino che è Non pensarci di Zanasi non appena un film parla intelligentemente e ironicamente di precari trentenni che vivacchiano alla giornata con il sole sul volto ma con il buio nel cuore, io mi sciolgo e approvo per partito preso. D'altronde lo schermo è uno specchio giusto?
E il mal comune fa mezzo gaudio. E poi ci piace guardarci da fuori, a noi losers.
Brutto il titolo. Spaghetti story, ma chevvordì?